Relatore: Giacomo Canobbio e Svamini Shuddhananda Ghiri
La prospettiva induista sulla morte, racconta Svamini Shuddhananda Ghiri, non pone al suo centro la fine, ma il percorso di vita. Riscoprire la vita è la strada maestra per giungere a un’esperienza del morire che non sia traumatica. Sono molte le parole dietro cui ci si nasconde per eludere tematiche difficili, rendendo tabù il passaggio tra un corpo animato e uno, apparentemente, inanimato. La tendenza diffusa è quella di esorcizzare la morte, quasi che, a rifiutarsi di nominarla, essa lasci in pace gli esseri umani. Nel poema epico indiano “Mahabharata” è narrata la vicenda di un certo Yudhisthira, il figlio del Dio Dharma, che, interrogato dal padre su quale sia la cosa più sorprendente del mondo, risponde che nonostante ogni giorno muoiano moltissime persone, coloro che restano credono di vivere per sempre.
Relatore: Valerio Terraroli, professore ordinario di Museologia e Critica Artistica e del Restauro presso l’Università di Verona
Abbiamo allontanato la morte dai nostri discorsi, ospedalizzata, ostracizzata dalle nostre case e questo ci ha portati a una minore consapevolezza della fine, intesa come qualcosa di impossibile o di catastrofico. Valerio Terraroli, professore ordinario di Museologia e Critica Artistica e del Restauro presso l’Università di Verona, parte in medias res, rilevando l’enorme differenza che contraddistingue il nostro rapporto con la morte e quello che avevano gli Antichi. Il tema della morte viene di frequente intrecciato con il tema della vanità. Nell’opera di Hieronymus Wierix, incisore e disegnatore fiammingo, il pavone che si specchia rappresenta la vanità umana, mentre lo scheletro, pulito e senza tracce di decomposizione, regge falce e clessidra, simbolo dell’inesorabile scorrere del tempo.
Relatore: Relatori: Ottavio di Stefano, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Brescia; Alberto Michele Giannini, direttore S.C. di anestesia e rianimazione pediatrica ospedale dei bambini ASST Spedali Civili di Brescia e
«Tema centrale – esordisce il dott. Claudio Cuccia – è comprendere che cosa significa una vita umana degna di essere vissuta. La decisione dei medici va ben al di là dell’aspetto puramente tecnico. La TAVI, impianto di valvola aortica per via transcatetere, è una procedura che, per la minore invasività, è adatta a soggetti anziani, a cui prima si doveva dire ‘non c’è più nulla da fare’. Oggi possiamo curarli». Resta necessario, però, rifiutare il riduzionismo medico e valutare caso per caso, non solamente dal punto di vista scientifico, ma anche umano. Abbiamo il diritto di avere una vita umana degna di essere vissuta, ma questo può diventare un dovere? Ci sono pazienti che desiderano essere sottoposti a interventi anche complessi per migliorare la loro aspettativa e qualità di vita, altri che, semplicemente, “non se la sentono”. Il dovere del medico è cercare di convincere il paziente su quale scelta potrebbe essere, dal punto di vista clinico, più vantaggiosa, ma senza mai sostituirsi alla libertà della persona che può rifiutare questi trattamenti. È fondamentale la domanda che il bioeticista Reich pone ai medici: «Perché ho accettato di prendermi cura di un uomo che soffre?».
Le pensatrici del Novecento irrompono nel panorama politico e filosofico, fondato su basi monolitiche, con un pensiero personale, distaccato dai grandi sistemi e desideroso di cogliere il valore delle relazioni. Hanna Arendt segue il processo di Eichmann. Edith Stein, ispirata dalla fenomenologia di Husserl, elabora un nuovo concetto di empatia. Simon Weil vede nella corrispondenza tra esseri umani la base di ogni solidarietà e speranza.