Quando finisce la vita: la morte tra evento e decisione - Claudio Cuccia, Ottavio Di Stefano e Alberto Michele Giannini
Relatore Relatori: Ottavio di Stefano, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Brescia; Alberto Michele Giannini, direttore S.C. di anestesia e rianimazione pediatrica ospedale dei bambini ASST Spedali Civili di Brescia e
«Tema centrale – esordisce il dott. Claudio Cuccia – è comprendere che cosa significa una vita umana degna di essere vissuta. La decisione dei medici va ben al di là dell’aspetto puramente tecnico. La TAVI, impianto di valvola aortica per via transcatetere, è una procedura che, per la minore invasività, è adatta a soggetti anziani, a cui prima si doveva dire ‘non c’è più nulla da fare’. Oggi possiamo curarli». Resta necessario, però, rifiutare il riduzionismo medico e valutare caso per caso, non solamente dal punto di vista scientifico, ma anche umano. Abbiamo il diritto di avere una vita umana degna di essere vissuta, ma questo può diventare un dovere? Ci sono pazienti che desiderano essere sottoposti a interventi anche complessi per migliorare la loro aspettativa e qualità di vita, altri che, semplicemente, “non se la sentono”. Il dovere del medico è cercare di convincere il paziente su quale scelta potrebbe essere, dal punto di vista clinico, più vantaggiosa, ma senza mai sostituirsi alla libertà della persona che può rifiutare questi trattamenti. È fondamentale la domanda che il bioeticista Reich pone ai medici: «Perché ho accettato di prendermi cura di un uomo che soffre?».
Il cardiochirurgo Giancarlo Rastelli sosteneva che «la prima carità da offrire al malato è la scienza», senza scienza non c’è possibilità di cura, ma la scienza da sola non basta. «Unire cura e cultura, far sì che l’ospedale diventi un luogo dove si può imparare, capire, condividere, valorizzare la persona ben al di là delle patologie che la affliggono. La tecnologia è necessaria, ma non sufficiente. Bisogna sempre tenere viva l’alleanza tra medico e paziente, un rapporto di fiducia talvolta difficile ma basilare per una prospettiva di cura che sia efficace e al tempo stesso umana».
Il dott. Ottavio Di Stefano spiega, attraverso una testimonianza, che non solamente la fiducia tra medico e paziente, ma anche quella reciproca tra colleghi, è fondamentale per la cura: «Una signora di media età, con parametri vitali nella norma ed esami diagnostici buoni, continuava a non star bene. Così ho deciso di affidarla ai miei colleghi. Dopo poche ore, si trovava in sala operatoria, per una dissezione aortica».
Fidarsi degli altri, o anche delle proprie intuizioni, è molto importante in campo clinico. «Al primo anno dell’università di medicina dovrebbero esserci più lezioni sul focus delle relazioni. È importante, oggi più che mai, inserire negli ospedali figure con professionalità diverse. Se si percepisce la vocazione medica bisogna anche considerare che si passerà tutta la vita in rapporto con gli altri e con la loro sofferenza. Nel momento in cui si opta per una scelta clinica è necessario che ci chiediamo non solo se sia la scelta corretta, ma anche come ogni singolo paziente viva un determinato trattamento terapeutico. La gentilezza è centrale, fondamento strutturale della professione medica, come imparare a fare le guardie, come conoscere la letteratura medica» – prosegue Di Stefano. Ma fin dove deve arrivare la cura? Il fare appaga, distacca, è una forma di tranquillante, anche per il medico. Per questo si rende necessario analizzare caso per caso, e «quando non si sa che cosa fare bisogna ricominciare da capo, tornare al letto del paziente, visitarlo e ascoltarlo di nuovo. Non si raggiungeranno certezze, ma, almeno, si sarà fatto correttamente il proprio lavoro», conclude Di Stefano.
«La morte è spesso idealizzata, a volta medicalizzata, altre rifiutata, ma si tratta sempre di entrare in relazione con il limite. Più di una morte su cinque avviene in Terapia intensiva, l’85% dei bambini muore in ospedale, dove il fine vita è fortemente medicalizzato ed esiliato lontano dallo sguardo della società. Questo deve essere motivo di riflessione: stiamo diventando incapaci di ‘dire la morte’, di immaginare parole e gesti. Secondo uno studio su Jama Medicine Journal, che ha preso in analisi 69 colloqui, la parola morte viene utilizzata nel 5% dei casi dai medici e il 15% dai famigliari», afferma il dott. Alberto Michele Giannini. La pretesa della linearità è più che mai fuorviante nei contesti di grande sofferenza e la proporzionalità delle cure dipende da mille sfaccettature. La pratica della medicina è sempre governata dal limite: limite della ragionevolezza (non siamo in grado di rispondere a qualsiasi necessità), di efficacia clinica (tentativo medico di spostare sempre più in là le possibilità della tecnica, ma senza mai poter annullare la morte) e di senso (proporzionalità delle cure relativa al rapporto tra il soggetto, la sua biografia e la sua patologia). Victor Fuchs, economista della salute, sosteneva che bisognerebbe sempre tenere in considerazione il limite di senso per arginare, attraverso una coscienza vigile, “l’imperativo tecnologico” appreso dai medici, ovvero la sovrapposizione tra ciò che possono o che sanno fare e la necessità di interrogarsi sull’appropriatezza delle loro azioni. Inoltre, è bene ricordare che, a seconda del contesto geografico, le scelte sul fine vita cambiano radicalmente, così come le decisioni dei medici di sospendere o continuare determinate cure. In America Latina e in Nord Europa, ad esempio, sono pochissime le morti precedute da ricovero in Terapia intensiva e da trattamenti di supporto vitale, mentre in America del Nord e in Europa del Sud sono numerose. Le nostre azioni, anche quelle mediche, sono sempre influenzate da un carattere culturale ed è importante considerare che, per esempio, nel Sud Europa la volontà del paziente viene indagata meno rispetto a quanto avviene nel Nord Europa. Al di là delle differenze culturali, però, si è studiato che nei reparti di Terapia intensiva dove aleggia un buon clima, le decisioni sono prese in équipe e i pazienti vengono ascoltati più a lungo, di conseguenza, la mortalità è più bassa. Parlarsi, ma prima ancora ascoltarsi, è una concreta azione di cura; per questo è necessario che, in contesto di formazione universitaria, grazie all’apporto di figure specializzate, sia data la possibilità ai futuri medici non solo di studiare e apprendere procedure, funzionamento dei macchinari e clinica, ma anche di riflettere sulle motivazioni di una decisione: sto agendo assecondando la mia angoscia o sto compiendo davvero il bene del paziente?