Paesaggi, spazi e monumenti luoghi dell’identità - Prof. Giovanni Puglisi
Relatore Prof. Giovanni Puglisi
Quando, appena alcuni mesi fa, sono stato invitato a intervenire presso l’Accademia Cattolica di Brescia nell’ambito del ciclo di incontri dedicato al tema dell’Identità minacciata o ritrovata, certo non immaginavo che il mio intervento si sarebbe svolto in queste modalità: distanti dai luoghi e dalle persone, remote, e non frontali.
Eppure, nel momento storico straordinario che stiamo attraversando - in cui il vivere gli spazi pubblici ci è in qualche modo precluso, in cui la nozione di paesaggio non va al di là di quel che possiamo scorgere dalle nostre finestre, in cui i territori appaiono già modificati dalla parziale assenza dell’uomo (pensiamo ai delfini e alle meduse che si vedono muoversi tra i canali di Venezia), in cui tanta parte della nostra quotidianità si consuma in luoghi puramente virtuali – la scelta di intervenire sul ruolo di Paesaggi, spazi e monumenti come luoghi dell’identità può assumere il valore diverso, rinnovato, di opportunità: e ciò, solo se consentiremo alla distanza di non mutarsi in distacco, bensì in prospettiva inedita, e, ancora, se permetteremo alla mancanza di trasformarsi in comprensione autentica e non retorica.
È passato ormai oltre un secolo da quando il filosofo Oswald Spengler definì il paesaggio come “il secondo volto dell’uomo”, quello del suo spirito e della sua storia fissati nella natura: da allora, e con accelerazione costante nel secolo ventunesimo, la nozione di “paesaggio” si è progressivamente – e ormai ai giorni d’oggi definitivamente – affrancata da quella di ambiente naturale, dal quale si distingue per il ruolo fondamentale che nella sua definizione è attribuito all’azione dell’uomo. Un paesaggio è tale quando riflette il rapporto dell’Uomo con la Natura, del tutto indipendentemente dalla bellezza e la maestosità di quest’ultima, dal suo valore estetico; un paesaggio è tale in virtù della Storia, quanto e più non lo sia a causa della geografia, della geologia e dell’orografia. Se mi permettete una metafora e un paradosso tratti dal mondo dell’arte, non potremmo considerare oggi “paesaggi” le romantiche rappresentazioni di un Turner o di un Constable, che, nei loro dipinti di mari in tempesta, evocano una Natura che è espressione del divino in terra, indomabile e soverchiante l’essere umano; al contrario, lontana dal romanticismo, la nozione contemporanea di paesaggio rimanda piuttosto all’umanistica – e consentitemi, tutta italiana – misura degli sfondi di Leonardo o di Piero della Francesca che, in secondo piano rispetto al ritratto (ché l’uomo, anzi, il rispetto dell’uomo è sempre, per loro, al centro di ogni cosa), si aprono in prospettiva, in un susseguirsi di valli e colline coltivate, boschetti e campi in cui le architetture s’inseriscono armoniche.
Solo a partire da questa consapevolezza, tutta umanistica, del paesaggio, come combinato disposto dell’azione della natura e dell’uomo, potremo comprendere il valore propriamente culturale – e in questo senso identitario - che a esso è ormai attribuito, a livello internazionale e nazionale, tanto entro il sistema patrimoniale istituito dall’UNESCO attraverso le sue Convenzioni (in cui ritroviamo le definizioni di “paesaggio culturale” e di “paesaggio storico urbano”), quanto nella Convenzione europea del paesaggio, quanto, infine, nel nostro Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. In particolare leggiamo, nella Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta dai Ministri della Cultura e dell'Ambiente del Consiglio d'Europa nell’anno 2000:
Ogni parte si impegna a riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità;
Definizione questa ripresa poi nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004, che all’art.131 sancisce:
Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni.
Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali.
Se il Codice – nella sua natura di legge dello Stato – fa, dunque, esplicito riferimento all’identità nazionale, noi sappiamo che il paesaggio (nel quale rientrano, alla luce delle definizioni date sopra, a pieno titolo anche spazi e monumenti) attiene in realtà a tutte le dimensioni dell’identità.
Esso informa l’identità individuale: penso al paesaggio dell’infanzia che è affettivo, o non è, e di cui si ricercano magie, incanti e proporzioni per tutta la vita a venire.
Esso compone le identità delle comunità che lo hanno costruito con il loro lavoro collettivo e di cui collettivamente si prendono – o dovrebbero prendersi – cura.
Esso infine, come sancito dal Codice, può esprimere un’identità nazionale, almeno nella misura in cui essa è percepita, in alcuni tratti distintivi culturali comuni, come espressione di quello che una volta si chiamava “carattere” di un popolo, di una nazione: il genius loci di derivazione romana, inteso come insieme delle caratteristiche naturali, socio-culturali e architettoniche di un luogo.
Posto che abbia ancora senso, oggi, in un contesto sempre più polarizzato tra identità locali e sovranazionali, riflettere su quale sia l’identità italiana come restituita dal nostro paesaggio, potremmo partire da alcuni punti fermi, primo tra tutti la sua pluralità.
Il policentrismo italiano, espressione della nostra lunga storia di divisioni politiche e amministrative – complice anche la straordinaria varietà morfologica del territorio peninsulare – ha dato vita a un paesaggio, per lungo tempo, caratterizzato da un raro equilibrio tra campagne e centri urbani, di cui, alcuni, di dimensioni contenute, paesaggio divenuto simbolo di una elevata qualità della vita, fatta di tradizioni enogastronomiche e maestrie artigiane, rinomate in tutto il mondo.
Siffatta ibridazione, traduzione del costante succedersi di invasioni e dominazioni straniere – ma anche di una precisa vocazione all’apertura e al commercio, come quella simboleggiata, ad esempio, dalle repubbliche marinare – deve essere senz’altro considerata un ulteriore elemento fondante la pluralità del paesaggio italiano: da siciliano, sono convinto che la mia identità – di cui fa parte anche la capacità di spostarmi e stabilirmi con profitto e soddisfazione in realtà diverse da quella in cui sono nato, come mi capita da più di cinque lustri qui in Lombardia – sia stata fortemente plasmata da quell’incontro straordinario tra la ricercata e raffinata fioritura dell’arte araba e il vento del geometrico nord normanno: la memoria vivente e vissuta di quell’identità è quell’“incontro di civiltà”, che si respira ovunque, ancor oggi, nelle vie di Palermo.
Allo stesso modo, credo, i cittadini lombardi e bresciani sentono ancora in sé stessi il frutto di un innesto tra cultura greco-romana e mondo germanico, mediata dalle influenze bizantine ed ellenistiche – oserei dire, splendida sintesi di arte e vita – incarnata nel territorio vivente dallo straordinario complesso monumentale di Santa Giulia, ma soprattutto – mi sia consentito – nello spirito dolcemente guerriero della regione italiana più aperta all’Europa, la nostra Lombardia, alla quale proprio in questi giorni, in queste ore è doveroso riconoscere insieme alla sua vivacità produttiva e al suo dinamismo territoriale, un grande senso di responsabilità e l’altissima dignità morale delle sue genti, seppur prostrate dal dolore, mai orgogliosamente rassegnate.
Ma se il paesaggio parla di chi siamo, dei nostri valori e delle eccellenze della nostra tradizione, esso riflette anche i nostri disvalori, le nostre mancanze, le insostenibili contraddizioni e criticità della nostra storia più recente.
Penso ad esempio allo scempio che del nostro paesaggio è stato fatto a partire dalla seconda metà del Novecento, al consumo del suolo, alla cementificazione e all’abusivismo che hanno caratterizzato la nostra intera storia repubblicana, a quella speculazione edilizia così tempestivamente denunciata nel 1962 da Italo Calvino.
Secondo il WWF, da 1956 ai primi anni del 2000, nel nostro Paese la superficie urbanizzata è aumentata del 500%, e tra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’estensione maggiore di Lazio e Abruzzo insieme, esponendo a rischio idrogeologico – secondo la Protezione Civile – oltre 6000 comuni italiani (l’82% del totale); e se nel decennio 1995-2006 i Comuni italiani hanno rilasciato permessi di costruzione per 3,1 miliardi di metri cubi – e, venendo ad anni più recenti, si può notare un’ulteriore accelerazione – secondo i dati del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente tra il 2017 e il 2018, in Italia, il consumo di suolo ha riguardato 51 chilometri quadrati, con una media di 14 ettari al giorno (un’estensione di circa 19 campi da calcio coperta da superfici artificiali al giorno): ovvero 2 metri quadrati di suolo perso irreversibilmente ogni secondo.
Coste quasi completamente edificate, dune scomparse, agglomerati urbani sfilacciati in cui non è più possibile riconoscere spazi e luoghi di aggregazione e creazione di comunità, quartieri e, a volte, paesi dormitorio, capannoni abbandonati, villette in calcestruzzo mai terminate, come fossero scheletri e carcasse mai seppelliti, disseminati lungo le strade del nostro Paese, a bloccare lo sguardo che non raggiunge più l’orizzonte: anche questo, oggi, è il paesaggio italiano. Un paesaggio degradato, un paesaggio subìto, ma nondimeno il drammatico quadro di vita di milioni di italiani, il paesaggio in cui, progressivamente, un numero sempre maggiore di nostri concittadini, dal dopoguerra ad oggi, ha costruito la propria identità. Di questa identità faranno parte, assorbiti come linfa dalle radici, un certo sprezzo delle regole, una qualche indulgenza verso disonestà e corruzione, un certo disincanto diffuso verso i valori propri della solidarietà, della cura, del vivere insieme, e, infine, crescente sfiducia nel ruolo delle Istituzioni e nel senso della politica.
È lontana l’immagine leopardiana dell’ermo colle che segna liricamente il confine della conoscenza umana all’interno di un paesaggio italiano immaginato più che vissuto, la cui infinita bellezza è l’icona di una sofferta identità pronta a naufragare nella irrefrenabile sintesi tra uomo e natura.
Ecco perché l’educazione al paesaggio si costituisce ancor oggi quale parte integrante della nostra educazione civica, e gli interventi per la sua tutela e il suo recupero possono essere identificati direttamente quali strumenti di ampliamento della democrazia e di rafforzamento dei diritti civili e della coesione sociale, senza voler neppure nominare, qui, il valore in termini economici – penso al turismo e alle esportazioni – di un paesaggio integro in grado di rappresentare la qualità della vita italiana e del made in Italy nel mondo.
Vorrei che fosse chiaro: quando parlo di tutela e recupero del paesaggio non invoco un immobilismo passatista, tutt’altro! Come ha bene espresso Luisa Bonesio, docente di geofilosofia all’Università di Pavia, riconoscere il carattere essenzialmente culturale del paesaggio consente, finalmente, di “evadere dall’alternativa inaccettabile tra congelamento e museificazione da un lato e, dall’altro, liberare (il più delle volte in modo arbitrario) iniziativa e manomissione del territorio”, chiamando le parti in causa [leggi: istituzioni nazionali e locali, comunità, entità produttive, singoli individui] a una articolata responsabilità della gestione del luogo, come unità dotata di senso e di valore.
“Non si dà paesaggio” – prosegue Bonesio – “senza trasmissione di saperi, modi e stili specifici di rapporto con il territorio […]: senza tradizione. Ma la tradizione, diversamente dall’accezione imbalsamatoria ed eternizzante in cui per lo più suona il termine, è un processo dinamico di selezione, valorizzazione, adattamento del patrimonio che costituisce una cultura nella sua differenzialità. […] In questa prospettiva, - prosegue Bonesio – tradizione e innovazione non sono in insanabile contrasto: la continuità dello stile di una cultura (e dunque il suo modo di produrre-conservare il paesaggio) si realizza attraverso innumerevoli atti di trasformazione, adattamento, riassetto; è quella “normale” dinamica nella quale una cultura si perpetua, enfatizzata efficacemente nell’espressione [dell’urbanista] di Pier Luigi Cervellati ‘la tradizione è un’innovazione riuscita’”.
E al contrario, possiamo desumere, che le innovazioni hanno una reale opportunità di successo – di inserimento armonico cioè nella trama paesaggistica e nel tessuto culturale, di possibilità di dare risposte realmente efficaci alle istanze della modernità – esclusivamente quando esse poggiano in modo saldo nella tradizione del territorio, intesa come l’insieme delle sue caratteristiche distintive, delle sue matrici formali, culturali, simboliche ed estetiche.
Quando ciò non accade, quando l’innovazione è il frutto di un intervento sovraordinato, quando essa è eterodiretta da forze esterne ed estranee al territorio, allora essa si configura inevitabilmente come degrado o aggressione, percepiti o meno che siano.
È quanto avvenuto, ad esempio, alla fine del ventesimo secolo, allorquando la crescita economica caratteristica della surmodernità (un neologismo che fa riferimento allo sviluppo delle società complesse postindustriali) ha determinato la nascita di quelli che Marc Augé ha definito “non-luoghi”. Secondo il filosofo francese, che coniò questa espressione all’inizio degli anni Novanta del Novecento, infatti, gli eccessi propri della fine del secolo scorso – eccessi di tempo, di spazio e di ego – hanno dato vita a non-luoghi, che si definiscono in contrapposizione ai luoghi antropologici, ovvero agli spazi identitari, storici e relazionali.
Non-luoghi sono le strutture necessarie alla circolazione accelerata delle merci e delle persone (aeroporti, autostrade, centri commerciali): spazi che rispondono a una medesima funzione di consumo e dunque identici ovunque (omologati), spazi incentrati sul presente e dunque incapaci di integrare profondità e prospettive storiche (precari, temporanei), spazi in cui gli individui entrano fugacemente in contatto, mai però in relazione (sterili).
Abbiamo tutti esperienza di tali non-luoghi, in cui sempre più si stanno trasformando anche i centri storici delle nostre città, punteggiati dalle stesse catene di negozi e ristoranti, dal design funzionale, distintivo e immediatamente riconoscibile, che finiscono con il trasformare i nostri viaggi in semplici spostamenti.
Come dicevo, Marc Augè coniava la definizione di non-luoghi verso la fine del secolo scorso, ovvero tre anni dopo la caduta del Muro di Berlino, quando il mondo si trovava ancora agli inizi del processo di globalizzazione, in cui, invece, oggi siamo immersi, ma soprattutto solo pochi mesi dopo l’annuncio della nascita, da parte del CERN, del world wide web. Da allora, negli ultimi trenta anni, l’interconnessione planetaria si è evoluta a livelli inediti nella storia dell’umanità e - con essa – la spinta alla frammentazione del tessuto sociale fino all’unità minima dell’individuo.
Gli spazi fisici dell’esistenza si sono convertiti sempre più nella loro manifestazione virtuale, “non-luoghi” per eccellenza, eppure sempre più determinanti nella costruzione dell’identità individuale e delle sue relazioni, tanto affettive quanto professionali.
Di fronte a questo stato di cose, che esaspera le polarità di individualismo e cosmopolitismo, rendendoci tutti fondamentalmente apolidi, la mediazione del paesaggio e del territorio viene progressivamente meno, e insieme a lei il portato dei valori culturali e sociali che essa fonda ed esprime. Quale sia, nella lunga durata, la posta in gioco per il genere umano è difficile da immaginare. Ne abbiamo avuto un assaggio, forse, in queste settimane di quarantena e distanziamento, in cui la vita di ognuno di noi ha subìto un sostanziale impoverimento; in cui abbiamo potuto sentire profondamente la differenza tra un abbraccio e una videochiamata; in cui al corpo è mancato il movimento e allo sguardo è venuta meno l’ampiezza; in cui le differenze sociali ed economiche si sono ulteriormente approfondite, tra smart workers da una parte e front-line workers dall’altra; in cui è stato precluso l’accesso e la partecipazione non solo a spazi pubblici e patrimoni ambientali e culturali, ma persino ai più antichi e fondativi istituti sociali, come matrimoni e funerali.
Queste settimane, forse, ci hanno restituito una misura diversa di paesaggi, spazi e monumenti come luoghi di identità e relazione: una misura di cui spero terremo conto nelle “fasi” a venire.
Prof. Giovanni Puglisi