Laura Boella - Essere “padroni” della propria vita o accogliere la vita come dono?
Le pensatrici del Novecento irrompono nel panorama politico e filosofico, fondato su basi monolitiche, con un pensiero personale, distaccato dai grandi sistemi e desideroso di cogliere il valore delle relazioni. Hanna Arendt segue il processo di Eichmann. Edith Stein, ispirata dalla fenomenologia di Husserl, elabora un nuovo concetto di empatia. Simon Weil vede nella corrispondenza tra esseri umani la base di ogni solidarietà e speranza.
Le esperienze di relazione e di vulnerabilità offrono concretezza all’agire etico oltre a una spiccata sensibilità per ciò che è diverso, ma, non per questo, di valore inferiore.
L’empatia non è un banale sovrapporre le proprie emozioni a quelle dell’altro, ma restare “capaci” di accoglierlo, intuire la sua realtà spirituale e corporea, bisogni e desideri, paura e felicità.
Nel 1941 Simon Weil propone il progetto di inviare un gruppo di infermiere sul fronte: prendersi cura dei soldati in opposizione alla brutalità della guerra. A chi le obiettava che non sarebbe stato possibile, a uno sparuto gruppo di infermiere, curare moltissimi soldati, la Weil rispondeva che l’efficacia morale di un simbolo è del tutto indipendente dalla quantità.
Il semplice persistere di un compito umanitario nel centro della battaglia offre la possibilità di gustare una tenerezza “moderna” e perfettamente sintonica con le sfide del tempo.
Anche il dualismo tra natura e cultura può apparire, talvolta, labile. La parete di divisione si assottiglia e diventa porosa, soprattutto quando si tratta del conflitto tra valori altrettanto degni di considerazione.
La libertà “inedita” dell’epoca contemporanea ha logorato i confini dei processi naturali, precedentemente considerati fuori dal controllo umano, e corre il rischio di eccedere in una volontà di potenza, che conduce a forme di de-responsabilizzazione.
Un’ulteriore conseguenza può essere la vertiginosa percezione di vuoto. L’esistenza si riduce a una mera sopravvivenza biologica, economica, sociale, non a una vita vissuta con pienezza e significato. Riscoprire il senso, allora, aiuterebbe a recuperare la relazionalità come prospettiva fondamentale. Siamo custodi della soggettività di chi è prossimo e di chi è lontano, il bene altrui è anche il nostro bene. La responsabilità è la capacità di rispondere a uno sguardo che ci interroga, che ci “ri- guarda”, appunto. Il volto dell’altro chiede di fornire una risposta, impossibile esimersi da questo appello. La consapevolezza dell’interdipendenza porta alla radicale trasformazione dal soggetto inteso come “individuo” al soggetto come “persona”. La fragilità è una dote preziosa che, come scriveva Edith Stein, aiuta a tenere gli occhi autenticamente spalancati sulla realtà.