Massimo Reichlin - Figure di vita umana “degna” nell’attuale contesto culturale
Relatore Massimo Reichlin
Il contesto culturale da cui prende avvio la riflessione del Prof. Massimo Reichlin è segnato da un elemento importante: la nascita della bioetica in America all’inizio degli anni Settanta. Da questo cambiamento, al tempo stesso filosofico, teologico, giuridico e medico, trae origine l’enfasi del concetto di autodeterminazione, secondo un’interpretazione unilaterale del concetto di autonomia. Ciò, inizialmente, è positivo perché mette in dubbio il paternalismo medico, ancora molto accentuato. Paternalismo che nasce principalmente in un contesto di “sproporzione” tra poteri: da una parte il medico, che conosce e cura, e dall’altra il paziente che ignora di che cosa ha bisogno ma desidera essere curato. Così come il sovrano “conosce” il bene dei suoi sudditi, anche a loro insaputa, allo stesso modo il medico capisce qual è il bene del paziente, senza interrogarlo e a prescindere dalla sua volontà, che si presuppone incompetente e quindi senza valore. Un ulteriore passo avanti avviene con l’introduzione del “consenso informato”, con il Codice di Norimberga, nel 1947. Questa procedura però, inizialmente, inerisce solo la sperimentazione, mentre per l’utilizzo in ambito di pratica clinica si dovrà attendere gli anni Settanta.
Il Prof. Reichlin spiega che oggi sembra emergere un’ulteriore problematica, ancora irrisolta. L’unilateralità del concetto di autonomia porta a far coincidere la dignità della vita con la totale autosufficienza dell’individuo, capacità di dare a sé stesso una regola e una norma. Se la gestione del proprio io dipende anche da altri, la vita rischia di perdere immediatamente la sua qualità e la sua dignità. C’è però un dato di fatto: la nostra realtà antropologica non è mai aliena dai rapporti interpersonali e senza relazione con altri non possiamo vivere. Nessuno è davvero autosufficiente, ma nel momento in cui la salute e la forza fisica lo consentono, ci si illude che possa essere così, vivendo poi il trauma di una repentina “caduta”, qualora la vulnerabilità diventi condizione permanente. Se il rapporto che l’alterità è positiva questa diventa occasione di solidarietà e di supporto, al di là di ogni solitudine. Se la relazione è negativa, difficilmente si accetta di essere presi in carico da altri nei momenti di fragilità. La solidarietà potrebbe, forse, migliorare radicalmente il rapporto tra paziente e patologia.
Tuttavia, l’immagine di vita degna non può correre il rischio di venire imposta dall’esterno. Allora, è più che mai necessario prendere consapevolezza che la fragilità e la vulnerabilità sono elementi costitutivi della condizione umana in ognuna delle sue fasi e, specialmente, in corrispondenza della vecchiaia o dell’insorgere di patologie neurodegenerative. La relazione del Prof. Reichlin termina riflettendo su questioni attuali, come eutanasia, suicidio assistito, legge sulla depenalizzazione per chi aiuta al suicidio, interrogandosi se alla base di alcune decisioni non ci sia la percezione di essere rifiutati da una società che considera degna una vita, non in quanto tale, ma solamente quando questa rispecchia prospettive di totale autosufficienza.