Ethos, etica, diritti. Una prospettiva antropologica
Relatore Roberto Malighetti
Nel rapporto fra natura e cultura si possono distinguere, con qualche inevitabile semplificazione, quattro modelli:
1) Escludente. L’ontologia occidentale, che è prevalsa nella filosofia a partire dai presocratici fino all’idealismo di Fichte e Hegel, ha fondato la realtà sul concetto di essere, inteso come immutabile. Ha affermato l’universale a spese del particolare, ha destoricizzato la natura e ridotto abitudini e costumi a qualcosa di irrilevante. Descartes con la sua ricerca della verità assoluta e Spinoza con la sua concezione della sostanza come “Deus sive natura” possono essere visti quali esponenti di una simile visione. Fichte idealizza la comunità degli esseri razionali e Hegel nelle “Lezioni di filosofia della storia” vede l’Africa come il luogo non suscettibile di sviluppo. Tuttavia già Platone aveva messo in guardia dai commercianti stranieri che dovevano essere tenuti fuori dalla città. Anche gli spettatori dei giochi dovevano partire subito dopo. La differenza veniva dunque negata.
2) Stratigrafico, caratterizzato dall’inclusione escludente. La differenza è ora riconosciuta. La cultura come insieme di costumi, tradizioni, istituzioni non è più irrilevante. Iniziano le prime ricerche etnografiche, come quelle di Taylor nella seconda metà dell’Ottocento. È però il tempo della diffusione delle teorie razzistiche di De Gobineau. Così il confronto fra le varie culture porta ad assegnare la naturalità solo a un tipo di cultura, quella occidentale, secondo una scala unilineare che vede come punto di partenza il primitivo. L’evoluzionismo di Darwin viene applicato allo sviluppo della civiltà.
3) Integrativo di natura e cultura. Ora si riconosce che noi siamo prodotti della cultura e che la natura ne viene trasformata. Il nostro sistema nervoso centrale, se non viene culturalmente alimentato, si atrofizza. Già nella tradizione occidentale alcuni esponenti avevano messo in rilievo la funzione essenziale della cultura. Nel mondo greco Erodoto, che aveva dato importanza al viaggio e alla conoscenza dei popoli diversi, aveva descritto i loro costumi spiegando come la qualifica di “barbaro” dipendesse dal giudizio di colui che lo esprimeva. Montaigne nell’epoca della scoperta del nuovo mondo sottolineava che l’unica universalità riscontrabile fra le culture era la loro diversità. Quelle che consideravano le altre come “barbare” compivano una indebita esaltazione di sé, come facevano gli occidentali che cadevano nel pregiudizio dell’etnocentrismo. Anche Pascal affermò che la natura era in continuo mutamento. Herder vide la natura come indeterminatezza originaria e considerò la ragione come facoltà calcolatrice mediante i segni di cui erano costituite le lingue. Il linguaggio era dunque essenziale per il pensiero, da qui la sua importanza nella costituzione dell’uomo come ente razionale.
4) Fittizio, in cui natura e cultura non sono più intesi come entità assolute, ma come costruzioni. Questa concezione è stata favorita dalle scienze contemporanee come la fisica quantistica che ha mostrato l’interdipendenza fra l’oggetto e le circostanze della sua osservazione a tal punto che non è mai possibile cogliere la natura in se stessa. Si attingono non dati, ma fatti nel senso proprio del termine, ossia ciò che si fa in determinate condizioni. L’uomo rinasce come soggetto attivo e le culture diventano prodotti di rappresentazioni contingenti.
Se si segue quest’ultimo modello, la cultura è sempre mutevole, ibrida, un’arena in cui diverse concezioni si incontrano e si scontrano stabilendo diversi tipi di scambi. La difesa della propria identità attraverso la separazione dalla diversità, oltre che impossibile, può coprire comportamenti aggressivi di minaccia e di annientamento, suggeriti da latenti manipolatori, dai quali occorre stare in guardia.