RILEGGERE LA PANDEMIA

RILEGGERE LA PANDEMIA

articolo pubblicato sul n. 5/2020 della Rivista Humanitas, edita da Morceliiana, Brescia.

Ognuno legge i fenomeni non semplicemente registrandoli, ma includendoli in un orizzonte di comprensione che gli è proprio. Ovvio che alcuni aspetti di questo orizzonte sono comuni: si è umani e quindi, sebbene continuiamo a portare in noi l’animalità, comprendiamo i fenomeni in forma diversa dagli altri animali. La mia lettura sarà di carattere teologico. Con ciò non si vuol dire che farà riferimento immediatamente a Dio, come se si potesse sapere che cosa Dio pensi. Piuttosto, vorrebbe essere una lettura che fa proprio l’orizzonte di comprensione che si impara dalla Bibbia, il libro che ha segnato e continua a segnare la nostra cultura.

Di fronte ai fenomeni sorgono in genere due domande: 1. Perché si è verificato? 2. Che cosa si può fare?

Per quanto attiene alla prima, benché anche nel pensiero scientifico si sia abbandonata la pretesa di dare una risposta esaustiva, permane la necessità di indagare sulla matrice dei fenomeni, utilizzando modelli euristici, i quali però non liberano totalmente dall’incertezza. Non diverso è il procedimento di chi riflette in un orizzonte di comprensione filosofico o teologico: anche qui si è alla ricerca della matrice dei fenomeni, ma non ci si limita a individuare la matrice empirica. Fermarsi a questa, come a volte si fa, significherebbe cancellare gran parte della storia del pensiero umano, che non si è accontentato di trovare “cause” fenomeniche.

Per quanto attiene alla seconda, la cui soluzione suppone la prima (non si può trovare una cura senza aver fatto prima una diagnosi, anche solo ipotetica), si deve riconoscere che si procede, se si è onesti, per trial and error. Ciò vale sia per chi si muove in ambito scientifico sia per chi frequenta l’ambito filosofico-teologico. In entrambi i casi si registra una pluralità di opzioni e ciò sta a dire che una soluzione assoluta non esiste.

1. Perché si è verificata la pandemia?

Di fronte all’epidemia si è cercato di capirne la matrice, ma quando si volesse andare al di là dell’individuazione di un virus, l’incertezza pare non ancora superata. La successione di cause empiriche forse verrà trovata. Ma per molti la domanda sull’origine è andata oltre: si è usato un orizzonte di comprensione che ha incluso Dio che, in quanto creatore, sarebbe all’origine di tutti i fenomeni. In che modo lo sia non appare facile accordarsi. Alcuni, anche autorevoli, hanno voluto vedervi, sulla scorta di episodi biblici, un castigo di Dio nei confronti di una umanità sempre più peccatrice. Se però ci si chiedesse perché proprio in questo tempo, la sicurezza della risposta incomincerebbe a traballare. Peraltro, se Dio chiede agli umani di perdonare, perché Lui non perdonerebbe? Altri, sempre facendo riferimento a Dio, hanno prestato attenzione non tanto alla causa, quanto al fine: Dio vorrebbe educarci alla consapevolezza della nostra comune fragilità e quindi liberarci dalla supponenza che lo sviluppo della tecnica ha creato negli umani. Idea piuttosto pericolosa perché potrebbe provocare la ribellione. Di più, perché Dio per educare dovrebbe usare metodi punitivi, mentre si legge nella Scrittura che il suo modo di procedere, come si vede in Gesù, è essere solidale con le persone e quindi accompagnarle? Se nel Nuovo Testamento si coglie un processo educativo attribuibile a Dio, questo è visto nella opposizione che l’ambiente assume nei confronti dei cristiani, non in situazioni di malattia. Il termine che viene utilizzato è peirasmós, che vuol dire “tentazione, prova” e attiene a una tentazione che viene dall’esterno; per questo si chiede a Dio di non lasciarci cadere, nel senso di venir meno nella fede. Lo si riscontra anche nel Padre nostro. E non è Dio che tenta, bensì il maligno, come si coglie anche all’inizio della vita pubblica di Gesù (si veda il racconto delle tentazioni in Mt e Lc 4).

Attribuire a Dio la causa della pandemia suppone un’immagine di Lui che non corrisponde a quella che la Bibbia ci trasmette, soprattutto nel Nuovo Testamento, dove Dio si manifesta come amico degli esseri umani. La parabola del buon Samaritano come è letta nei primi secoli del cristianesimo lo illustra in modo efficace: il Samaritano è Gesù che si prende cura dell’umanità ferita.

La conclusione a cui giungiamo è che non sappiamo perché anche questa pandemia si sia prodotta e siamo quindi educati a stare di fronte al mistero. Ogni pretesa di attribuirne l’origine a Dio potrebbe perfino essere ritenuta hýbris intellettuale.

2. Che cosa si può fare?

Agire o pregare? La domanda nasce dall’osservazione di quanto abbiamo vissuto. Molte persone, soprattutto gli operatori sanitari, hanno cercato di opporre resistenza alla pandemia. Molti credenti hanno invece rivolto suppliche a Dio e alla Madre di Gesù perché fermassero la diffusione del virus.

Torna alla mente la pièce teatrale di B. Brecht, Madre Courage e i suoi figli, nella quale si suggerisce di agire anziché di pregare. Negli anni più drammatici della guerra dei trent’anni – siamo nel 1635 – Madre Courage con la figlia Kattrin stanno percorrendo le strade della Germania seguendo le armate, ora cattoliche ora protestanti, sempre più lacere e allo sbando. Nel gennaio del 1636 gli imperiali minacciano la città protestante di Halle, in Sassonia. Madre Courage con il suo carro si trova presso una casa di contadini. Appare un alfiere con tre soldati che chiede la strada per arrivare alla città e impone di non fare alcun rumore per non segnalare la loro presenza alla città addormentata. I contadini vorrebbero dare un segnale, ma si sentono impotenti. La contadina invita Kattrin, che è muta, a pregare e lei stessa formula la preghiera, alla quale si uniscono i contadini, chiedendo a Dio di svegliare la città e di proteggere i suoi parenti che laggiù vivono. Nel frattempo Kattrin è andata nel carro, ha preso il tamburo e, salita sul tetto, incomincia a battere sul medesimo tamburo. All’ingiunzione di smettere, ella non obbedisce, neppure quando è minacciata di morte. Il soldato, dopo numerose minacce, le spara con l’archibugio. Kattrin, colpita, continua ancora con qualche rullo, ma poi si accascia. Ma agli ultimi rulli del tamburo di Kattrin succede il rombo dei cannoni dalle mura della città. L’idea che Brecht vuol comunicare è molto semplice: non la preghiera, ma l’azione salva la città dalla minaccia degli imperiali. Agli occhi di Brecht la preghiera dei contadini non ha alcuna efficacia, né potrebbe averla. Una visione di questo genere sembra semplicemente frutto dell’ateismo di matrice marxista. In verità appare pervasiva, soprattutto nel contesto scientifico, e sembra avere dalla sua una conferma: il percorso degli avvenimenti non appare bloccato dalla preghiera.

Tanto vale allora, lasciar perdere la preghiera e agire. In effetti, durante la pandemia si è cercato di agire combattendo con tutti i mezzi. Di fronte a una minaccia tutti i viventi reagiscono cercando di difendersi. Il virus si è presentato come un nemico e gli umani hanno messo in atto tutte le loro conoscenze e le loro capacità tecniche per sconfiggerlo. La lotta è stata dura e non sempre vincente. Peraltro la minaccia perdura, e non ci si può nascondere che, superata questa, ne arriverà un’altra. L’azione è indispensabile, è doverosa: corrisponde alla lotta per la vita di tutti, che in modo diverso – in base alle proprie possibilità – tutti si è chiamati a condividere. Va però messo in conto che la vittoria definitiva in favore della vita non è nelle mani degli esseri umani: la morte appartiene alla condizione dei viventi terreni, compresi gli umani.

Il fatto di non essere usciti sempre vittoriosi non è però privo di valore. Rubo un’espressione a un medico, che ha vissuto la lotta in prima fila da primario del pronto soccorso di un ospedale: “Siamo passati dall’arroganza della cura all’umiltà del prendersi cura”. Gli operatori sapienti hanno sempre avuto la consapevolezza di non essere onnipotenti. Ricordo anche quanto mi raccontava un medico, che ha operato come primario di un importante reparto di medicina per alcuni anni, e ora è da tempo in pensione. Quando constatava che le sue cure erano inefficaci si rivolgeva al cappellano con le parole: “Adesso tocca a lei”. Forse dichiarazione di impotenza e nello stesso tempo di consegna del paziente a chi poteva introdurlo nella dimensione definitiva della vita. Forse distinzione di compiti. Nel tempo clou della pandemia anche questa distinzione è scomparsa: gli operatori sanitari sono stati amorevolmente costretti ad accompagnare all’ultima tappa della vita persone che non potevano avere accanto a sé nessun altro, e lo hanno fatto con dedizione, con il cuore straziato, a volte anche per la fretta con la quale dovevano soccorrere quante più persone potevano. Hanno scoperto ruoli mai immaginati, ai quali forse non erano stati neppure formati. La situazione di necessità ha fatto emergere una passione umana, forse sopita. In faccia ai morenti hanno visto la morte nella sua virulenza, capace di far interrogare su che cosa effettivamente valga nella vita. E hanno riscoperto il valore di “stare accanto” come parte del prendersi cura, in alcune circostanze anche con cenni di pratiche religiose.

L’impotenza è diventata così luogo per aprirsi al mistero: si è percepito che si è mortali, che la pretesa di essere padroni della propria vita è infondata. E da parte di tanti si è reimparato ad affidarsi al Mistero. La fragilità dell’esistenza ha dato avvio alla sapienza, che non nega la scienza, ma la integra, la rende limitato strumento per combattere ciò che minaccia l’esistenza umana, senza però trasformare la scienza in una nuova divinità. Non è amara constatazione quanto il Salmo 90 faceva pregare agli antichi ebrei e fa pregare ancora oggi a ebrei e cristiani: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via. [...] Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio».

Dalla preghiera molti hanno atteso che la pandemia finisse. Sintomatico il messaggio circolato sui social dopo la sera del 27 marzo, nella quale papa Francesco, solo, aveva pregato davanti al crocifisso di San Marcello e offerto una toccante riflessione: i contagi avrebbero incominciato a diminuire. Ci si dimenticava però che, mentre da noi si registrava un’inversione di tendenza, nel resto del mondo la curva dei contagi saliva. In quel messaggio sembrava che Dio avesse ascoltato noi e non i brasiliani o gli americani o gli indiani. La preghiera diventava richiesta di un intervento miracoloso, che però non è arrivato. Con conseguenze negative: se Dio non interviene vuol dire che non ci ascolta. Si pone pertanto la questione sullo scopo della preghiera. Può essere vero che tra gli insegnamenti di Gesù su questo tema si trova anche che Dio darà cose buone a coloro che gliele chiedono. Ma se questa è la versione di Mt 7,7-11, quella di Lc 11,9-13 non ha “cose buone”, bensì lo Spirito Santo, che è la forza di Dio nella tentazione. Il pregare non è finalizzato a ottenere qualcosa, bensì a sentirsi sorretti in una situazione di estrema impotenza, che potrebbe far perdere la fede. La preghiera rende resistenti proprio dove la lotta è più aspra, e diventa resistenza perfino di fronte a Dio, che si rende ancora più misterioso.

A questo riguardo merita attenzione il toccante racconto di Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio. Vi si presenta il testamento dell’ebreo Yossl Rakover trovato in una bottiglia tra le macerie di Varsavia dopo l’invasione nazista. Il racconto del ritrovamento prende avvio da una scritta scoperta sul muro di una cantina di Colonia, dove alcuni ebrei si erano nascosti durante tutta la seconda guerra mondiale: «Credo nel sole, anche quando non splende; credo nell’amore, anche quando non lo sento, credo in Dio, anche quando tace». In queste righe si trova in forma poetica il contenuto del testamento, che è redatto in forma di drammatica narrazione. Yossl Rakover descrive la situazione del ghetto sotto i bombardamenti, ma soprattutto la sua vicenda personale di resistente, anche dopo aver assistito alla distruzione della sua famiglia. Al centro della breve autobiografia svetta la sua personale incrollabile fede di ebreo di fronte a tutte le privazioni subite: «Credo nel Dio d’Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui». Yossl fa memoria di quanto il suo rebbe (maestro) gli aveva raccontato: la storia di un ebreo che, fuggito all’Inquisizione spagnola si era rifugiato su un’isola, dove però la moglie e il figlio vennero uccisi, rispettivamente da un fulmine e da una tempesta, ma si era rivolto a Dio con queste parole: «Dio d’Israele, sono fuggito qui per poterTi servire indisturbato, per obbedire ai Tuoi comandamenti e santificare il tuo nome. Tu però fai di tutto perché io non creda in Te. Ma se con queste prove pensi di riuscire ad allontanarmi dalla giusta via, Ti avverto, Dio mio e Dio dei miei Padri, che non Ti servirà a nulla. Mi puoi offendere, mi puoi colpire, mi puoi togliere ciò che di più prezioso e caro posseggo al mondo, mi puoi torturare a morte, io crederò sempre in Te. Sempre ti amerò, sempre, sfidando la Tua stessa volontà!». Yossl fa sua questa ardita confessione di fede, cui aggiunge la prima parte dello Shemà, per concludere con l’espressione del Salmo 31,6: «Nella Tua mano, Signore, affido il mio spirito», che l’evangelista Luca pone sulla bocca di Gesù morente (cfr. Lc 23,45).

La preghiera è il luogo in cui si dichiara la propria fede e la propria fedeltà a ciò che si è. Paradosso: nell’estrema esposizione alla morte si dichiara che c’è una relazione che resta; il luogo in cui il mistero diventa il Mistero al quale ci si consegna muti, ma sicuri che quanto a noi non è possibile a Lui è possibile; il luogo in cui la nostra piccola speranza diventa la grande Speranza, che non è più semplicemente di guarire, bensì di vincere la morte in forma definitiva.