Giacomo Canobbio – Svamini Hamsananda Ghiri - Fine e compimento della vita: una prospettiva interreligiosa

La morte e i temi ad essa legati hanno assunto sempre più i contorni di un nuovo tabù. La tendenza diffusa di esorcizzare la morte propria della società di oggi sembra combinarsi con una crescente, seppur celata, alienazione e confusione di valori.  

Fatta eccezione per alcune realtà, tra cui hospice, ospedali e alcune associazioni che mostrano un crescente interesse per queste tematiche, gran parte dell'umanità non ama disquisire sulla morte, piuttosto preferisce far finta che non esista. L’evento della morte e la riflessione su di essa esercitano da sempre un potere determinante sull’uomo costringendolo, da un lato, a un'affannosa ricerca del senso della vita, e, dall'altro, all'insorgere dell'abbaglio curioso di esserne immune. 

Già nel Mahabharata, Yudhisthira, il figlio del Dio Dharma, interrogato dal padre su quale fosse la cosa più sorprendente del mondo, risponde che nonostante ogni giorno siano infinite le persone che muoiono, coloro che restano credono di vivere per sempre. 

Nella visione induista la nascita e la morte non sono considerate come inizio e fine della vita, quindi, non come due punti posti su un asse di tempo lineare bensì sono ritenuti attimi, transizioni all'interno di un andamento ciclico del tempo e della vita.  

Già dagli inni presenti nel Veda si osserva che la tendenza generale della tradizione induista non è quella di estromettere la morte dalla vita quanto piuttosto di considerarla come il corollario stesso della vita.

Giacomo Canobbio 

Difficile integrare la morte nell’esistenza. Non c’è vivente che non si ribelli di fronte alla morte. Entrati nella vita non si vorrebbe mai uscirne. Gli esseri umani non si differenziano in questo dagli altri viventi. La consapevolezza, frutto della constatazione, che comunque morire si deve porta a nascondere con vari stratagemmi il dato di fatto, accettato mediante processi di razionalizzazione, ma emotivamente rifiutato.

La morte occultata

Tragicomica, ma sintomatica, la scena riportata da Philippe Ariés, uno dei più noti studiosi della percezione della morte nella cultura occidentale: in una Funeral Home statunitense ci si può imbattere in un morto seduto alla scrivania o in poltrona con il toscano in bocca, come se stesse ricevendo i visitatori (cfr. L’uomo e la morte dal medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 709).

La morte attesa

Solo i mistici o i radicalmente delusi dalla vita mostrano di non temere la morte: i primi perché la vedono come porta che apre alla visione beatificante di Dio; gli altri perché la vedono come liberazione. Per i primi si tratta di portare a compimento una relazione che ha sorretto la vita. Ne è un esempio San Paolo, il quale nutre il desiderio di morire per essere con Cristo. Così l’Apostolo prigioniero, quindi posto effettivamente di fronte alla possibilità di morire, scrive ai cristiani di Filippi: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita (il verbo greco è analusai, tipico del linguaggio marinaro: sciogliere le gomene) per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo» (Fil 1,21-24). Il passo, pur costruito sull’alternativa vita-morte, non stabilisce una contrapposizione tra il vivere e il morire, quasi ci si trovasse di fronte a una svalutazione del vivere: infatti anche nell’attività apostolica Cristo è glorificato nel corpo di Paolo (cfr. Fil 1,20). Ciò significa che la morte non può interrompere la comunione con Cristo; anzi, la rende ancora più intima poiché permette di raggiungere il “luogo” in cui Cristo si trova, in attesa del compimento finale.

La morte come liberazione dai mali della vita

Di coloro che vedono la morte come liberazione l’esempio più noto è quello di Giobbe. La pesantezza di una vita che si presenta come incomprensibile diventa per lui la ragione per invocare la morte. L’attacco poetico del capitolo 3 fa percepire al lettore che la morte è meglio della vita, quando questa è segnata da una malattia “ingiusta”, è diventata il nemico da maledire, perché è solo schiavitù, prigione, sofferenza.

La consapevolezza di dover morire genera sapienza

Se però si prescinde da questi ideal-tipo, si deve riconoscere che la morte incute paura. Ancora di più agli esseri umani dell’era della tecnica. Mettere in conto la morte rende sapienti, cioè capaci di restituirsi alla consapevolezza della dipendenza dalla natura, a fronte della presunzione di essere dominatori della realtà tutta, presunzione che si è accentuata nell’epoca moderna grazie ai grandi risultati raggiunti dalla scienza e dalla tecnica.

Nonostante tutte le razionalizzazioni, gli esseri umani, se hanno paura della morte e cercano in tutti i modi di sfuggirle, mostrano di percepire che questa non dovrebbe appartenere loro. Essa continua e continuerà ad essere percepita come l’ultimo nemico, ultimo non soltanto perché arriva alla fine e pone fine, ma pure perché appare il più potente, perfino invincibile. Se però il desiderio radicale degli umani è di vincerlo, si è posti di fronte a un dilemma: considerare il desiderio una frustrante illusione, oppure riconoscere che esso si può tradurre in speranza che Qualcuno venga in soccorso. Le religioni – tra esse il forma singolare il cristianesimo – hanno offerto agli esseri umani questa possibilità di apertura, educandoli a stabilire una relazione salvante con Chi ha messo nel loro cuore questo desiderio.

Caratteristiche dell'evento

Inizio evento Mercoledì 31 Maggio 2023 | 17:45
Luogo Aula Magna Università Cattolica