Verso quale umanesimo? - Tavola rotonda conclusiva

Verso quale umanesimo? - Tavola rotonda conclusiva

Sabato 21 maggio 2016, ore 09.00
Presso la sede dell'Accademia cattolica, in via Gabriele Rosa 30, Brescia
Sala conferenze dell'Archivio diocesano

Sabato 21 maggio 2016 alle ore 9.00 si conclude con una tavola rotonda il ciclo di incontri promossi dall'Accademia cattolica sul tema: Verso quale umanesimo? L'iniziativa vede la partecipazione del filosofo Marco Ivaldo, ordinario di Filosofia Morale presso l’Università di Napoli, del teologo Giovanni Cesare Pagazzi, docente presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, dell’economista Ignazio Musu, già ordinario di economia presso l’università di Venezia, e della scienziata Ornella Parolini, direttrice del Centro di Ricerca della clinica Poliambulanza di Brescia.

Identità e soggetto nella prospettiva di un futuro dell’umano

MARCO IVALDO
filosofo, Ordinario di Filosofia Morale presso l' Università degli studi di Napoli, Federico II

Identità e soggetto
Vorrei arrivare a parlare della identità dell’umano muovendo dall’altro termine-chiave della Vostra ricerca, cioè dal soggetto, iniziando perciò con alcune riflessioni sulla soggettività e sul soggetto. Se prendiamo la voce Soggetto nell’Enciclopedia filosofica, troviamo che il latino subiectum traduce l’aristotelico upokeimenon (ovvero il “substrato” che porta su di sé le qualità o gli “accidenti”) e che il soggetto, così inteso, conosce nella storia della filosofia almeno tre declinazioni:
  1. è soggetto logico di predicati (connesso, anche se non coincidente, con il soggetto grammaticale),
  2. è soggetto portatore di qualità ontologiche (soggetto come “sostanza”),
  3. ed è il soggetto a cui si riferiscono le rappresentazioni e i pensieri, cioè il soggetto psichico o spirituale. In quest’ultima accezione il soggetto viene identificato con la coscienza o con l’io.
Ora, penso che il tema del soggetto e della soggettività diviene rilevante per una ricerca su identità, soggetto, umanesimo, soprattutto se prendiamo la soggettività come qualità o dimensione del soggetto nella terza declinazione adesso addotta. La soggettività che oggi viene messa in discussione è quella della soggettività come un centro di iniziativa nei pensieri, nelle volizioni, nelle azioni, ovvero (avanzo una caratterizzazione che spero si chiarirà meglio nel seguito) la soggettività come una libertà nel fenomeno. Verrebbe la dire: è tema di conflitto la soggettività come persona, cioè come essere intelligente e libero. Ciò significa che è tema di conflitto l’identità dell’umano come tale.
La filosofia dopo Hegel e dopo l’”idealismo” sembra abbia trovato un tratto accomunante, pur nella grande varietà delle sue espressioni, nella contestazione e nella decostruzione (termine quest’ultimo che non a caso è termine-chiave nel pensiero contemporaneo) di una soggettività auto-fondantesi. Secondo i suoi critici la soggettività moderna si pretenderebbe contrassegnata da caratteri di auto-possesso, di auto-evidenza, di auto-trasparenza, di auto-fondatezza, di auto-centramento – per citare solo alcuni di essi -, che risultano impropri e insostenibili se guardiamo alla concreta esistenza ed esperienza del “soggetto umano”.
Tuttavia la contestazione di una soggettività auto-fondata non implica necessariamente il rifiuto di una idea positiva, anche se non assolutizzante, del soggetto. Invece nelle filosofie o nelle teorie che nascono in quella che Pareyson ha chiamato “dissoluzione dell’hegelismo” si riconduce (e si riduce) la soggettività al fatto di essere non un principio, ma un epifenomeno o un prodotto di strutture o processi cosiddetti “oggettivi”, come l’essere sociale-economico, oppure l’inconscio, oppure la pulsione vitale e la volontà di potenza, oppure l’evoluzione dei viventi. Qui si impongono i nomi, rispettivamente, di Marx, di Freud, di Schopenhauer e Nietzsche, di Darwin. L’idea del soggetto come centro di iniziativa, come capacità di iniziare, cioè libertà viene radicalmente contestata come ‘metafisica’, ‘ideologica’, e variamente decostruita.
Un colpo ulteriore nei confronti della autonomia della soggettività sembra oggi provenire dalle ricerche scientifiche nel campo della evoluzione dei viventi o delle neuroscienze, o meglio da filosofie che muovono dalla premessa (dalla pretesa?) che solo la scienza empirica veicoli una conoscenza della realtà e ritengono di poter spiegare il darsi di una soggettività libera e intelligente, e di una coscienza, attraverso la descrizione di soli processi immanenti alla natura sensibile e alla struttura della materia. Penso che questa riduzione della persona a natura funga anche da presupposto per quella idea di manipolazione tecnologica dell’umano ai fini di un suo cosiddetto ‘potenziamento’, che ispira le prospettive del post-umanismo e del trans-umanismo.
Ora, se le cose stessero semplicemente nel modo (troppo) rapidamente descritto vi sarebbe da dubitare sulla possibilità teoretica e sulla utilità pratica di interrogarci oggi sulla soggettività. Possiamo però constatare che, anche da prospettive assai differenti, e forse per la necessità di fronteggiare le serie questioni di natura antropologica ed etica sollevate dalla evoluzione delle scienze e dei costumi, si evidenzia un nuovo bisogno di pensare il soggetto e la sua responsabilità. Il tema della soggettività e del soggetto diviene perciò oggi argomento di interessi teorici non più solo di tipo de-costruttivo, ma costruttive. In altri termini sembra che – magari nella linea di una soggettività “ferita” (blessée), per riprendere una parola riferita a Paul Ricoeur, cioè che rinuncia a ogni ambizione auto-fondativa, e attenta alle dimensioni pulsionali, emozionali, relazionali, storiche che connotano il soggetto umano - la soggettività stessa riemerga come luogo di confronto speculativo e che il suo approfondimento possa offrire un approccio costruttivo per pensare l’identità come risposta alla domanda “chi sono io” da parte di un soggetto di iniziativa.
L’identità di una soggettività non auto-centrata, ma realizzantesi in processi ‘storici’ di soggettivazione in un contesto originariamente intersoggettivo, non può pensarsi come l’identità di un idem, cioè come una ‘medesimezza’ statica e chiusa, come invarianza nel tempo, ma deve comprendersi come identità processuale e dinamica (Ricoeur la chiama identità di un ipse, una capacità di mantenersi nel mutamento), che si costituisce come relazione-a e mediante la relazione-con il “fuori”, l’alterità, l’estraneità. Vale l’assioma: nessuna auto- relazione senza etero-relazione, nessuna identità senza alterità ed esteriorità. E’ ad esempio l’identità di un idem quella che cerca il proprio radicamento in fattori materiali, come il territorio o l’etnia, oppure in fattori ideali sì, ma de-storicizzati e fissati, quali possono diventare la tradizione, il libro, la dottrina se assunte in maniera rigida e statica, senza la fatica della interpretazione e del pensare. L’identità come relazione è invece una identità che, seguendo la seconda massima del giudizio di Kant, sa pensarsi “dal punto di vista dell’altro”, ovvero si costruisce (anche) guardando “fuori” e guardandosi “da fuori” (ad esempio guardandoci oggi dal ‘fuori’ della Europa, non solo dal “dentro” delle sue radici).
L’identità come relazione (l’ipseità) si costruisce attraverso percorsi di apprendimento reciproci, ovvero tramite percorsi che suppongono una disponibilità non solo a ‘ri-leggere’ e comunicare una storia, una memoria, un patrimonio spirituale, ma anche ad imparare dalla forma di vita e dal patrimonio spirituale degli altri, precisamente dagli “stranieri”. Non sto proponendo una identità senza radici. Penso però che le radici capaci di portare frutto non consistano propriamente in fattori naturalistici, etnicistici, nazionalitari, o in versioni fondamentaliste della religione e della spiritualità. Penso invece che le radici feconde stiano (paradossalmente) ‘in alto’, cioè in principi universalistici, suscettibili, proprio perché universalistici, di declinazioni molteplici e varie, e capaci di generare relazioni, ovvero processi di umanizzazione.
Se vale l’assioma: nessuna auto-relazione senza etero-relazione, bisogna allora concludere che l’identità, diversa dalla medesimezza, deve ammettere dentro di sé la differenza, l’estraneità, ossia ammettere che l’estraneo possa divenire parte di noi stessi, senza inglobarlo totalisticamente in noi. L’identità intesa come ipseità è allora un principio che si differenzia e rimane se stesso nel suo differenziarsi: orbene, questo ‘se stesso’ non è un idem, qualcosa di statico e bell’e fatto, ma è un farsi, un divenire, che ha come orizzonte temporale primariamente il futuro. Pensare l’identità come differenza e nella differenza equivale a perciò domandarci non solo che cosa siamo (di fatto), la nostra provenienza, ma che cosa vogliamo e dobbiamo essere, richiede perciò di immaginare una identità aperta e sempre solo abbozzata, una identità in divenire. L’identitas è tale solo nella novitas

ORNELLA PAROLINI
direttrice del Centro di Ricerca della clinica Poliambulanza di Brescia

La biologia, ovvero la scienza che studia tutto ciò che riguarda la vita e gli organismi viventi, dal livello molecolare a quello degli ecosistemi, che riconosce la cellula come l'unità base della vita suscita contemporaneamente fascino e timori. Il suo continuo progresso soddisfa il desiderio di conoscenza insito nell'uomo e sembra offrire, attraverso le proprie applicazioni, la prospettiva di un mondo migliore. Tuttavia ha preso forma negli ultimi decenni un inquietante dubbio: le nuove acquisizioni e, soprattutto, l'accresciuto potere di intervento sulla realtà vivente ha arricchito l'uomo o lo ha in qualche modo sminuito nella sua umanità? Abbiamo forse sottostimato quale impatto il progresso delle scienze biologiche avrebbe avuto non solo sull'ambiente e sugli organismi viventi, ma anche sull'uomo e sulla società e sull'immagine che noi abbiamo di questi? Inaspettatamente, proprio dalle sfide affrontate dalla biologia, dal suo crescente potere e dal senso del proprio limite potrebbero imporsi nuovamente le domande fondamentali sul significato e sullo scopo dell'esistenza e su chi sia l'uomo.
Gli interrogativi, i dilemmi, le speranze, i mutamenti antropologici suscitati dalla biologia saranno presentati e discussi con la sguardo del biologo.

GIOVANNI CESARE PAGAZZI
teologo, Docente presso la facoltà teologica dell' Italia Settentrionale

L'intervento parte dal “potere di muoversi” e dal “senso pratico” come primi doni dati all'uomo da Dio. Si tratta del dono di un potere che provoca ed esige l'effettivo esercizio. Solo se tale potere viene praticato in modo congruente alla realtà (con il suo essere “alla mano” e la sua opponente resistenza) diviene savoir-faire, portamento e comportamento garbato, sapiente, giusto, ag-graziato, cioè grazia. Si tratteggia lo sviluppo e il compimento del potere di muoversi, attraversando la relazione tra motivo, e-mozione e motivazione (sempre di movimento si tratta), e alcune esperienze di fatto neglette dal costume contemporaneo: lo sforzo, l'esercizio e l'abitudine. Ma il potere di muoversi e la sua grazia possono perdersi o diminuire; ecco allora l'attenzione al processo di ri-abilitazione, cioè la riconquista del potere e della grazia perduti. Un cenno propriamente cristologico entra nel mistero dei gesti di Cristo, colui che “cresceva in età, sapienza e grazia” (Lc 2,51), il “pieno di grazia” (Gv 1,14), colui che porta al mondo la grazia (Gv 1,17). La pratica della fede è mostrata anche come processo di ri-abilitazione alla grazia del Signore Gesù; processo che deve attraversare ogni aspetto del potere di muoversi: sforzo, esercizio, abitudine, gesto.