LUIGI ALICI - Bisogni indotti e visione antropologica

Relatore Relatore: Luigi Alici, professore emerito di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Macerata

La pubblicità non vende solo prodotti, ma anche visioni antropologiche. Di che cosa abbiamo davvero bisogno? Che cosa desideriamo? Desiderio e bisogno non sono sinonimi, ma concetti opposti. Se il bisogno si satura in un oggetto finito, il desiderio è un orizzonte aperto sull’infinito, non si esaurisce. Come è cambiata l’umanità nel corso dei secoli? Soprattutto, qual è il ruolo dell’antropologia oggi in relazione alle sfide dell’economia, della tecnologia e dell’intelligenza artificiale? Luigi Alici, professore emerito di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Macerata, traccia un itinerario per comprendere meglio queste tematiche.

La pubblicità non vende solo prodotti, ma anche visioni antropologiche che influiscono sul vissuto delle persone. Che differenza sussiste tra desiderio e bisogno? Il bisogno non è sempre naturale, ma talvolta indotto, è la ricerca di qualcosa che ci serve o pensiamo possa servirci. Il desiderio invece è incolmabile, non si satura dinnanzi al possesso di un oggetto o di un’idea. È un orizzonte ordinato che si sporge sull’intero dell’esperienza e sulla possibilità di trascendere oltre l’esperienza. Quanto ai bisogni indotti, non si tratta solo di vendere l’inutile per continuare a produrre, ma anche di immaginare qualcosa come necessario, anche quando non lo è. Quando la carica infinita del desiderio viene immessa nel circolo della soddisfazione istintuale e immediata, si crea un corto circuito che porta a confondere il necessario con il superfluo. La nostra epoca pare, da una parte, essere caratterizzata dall’autonomia e dall’altra dalle dipendenze, fisiche e spirituali. Si cerca il compenso spirituale nell’ordine del finito. Il desiderio è radicalmente diverso dal bisogno, se il bisogno è una mancanza, il desiderio è un’eccedenza e confonderli significa sgretolare l’equilibrio umano su cui si fonda la società. Il paradosso è che “si può vivere solo lasciandosi morire”. Come può accadere questo? Per quale motivo vogliamo catturare il desiderio e possederlo quando, invece, è proprio così che lo perdiamo? È importante comprendere l’idea di uomo che si staglia dietro queste problematiche. La nozione di antropocentrismo è stata criticata negli ultimi anni specialmente dalle visioni ambientaliste e animaliste. Tuttavia, anche queste critiche spesso non fanno altro che ribaltare le priorità, senza uscire dal labirinto di una tristezza strutturale e di un disequilibrio tra gli agenti in causa. La passione, nell’antichità, era passiva, mentre la modernità ne vede una rivendicazione del soggetto. Il privato, secondo i Greci, era un termine negativo. Chi vive nel privato è colui che è relegato ai margini della polis. Oggi, invece, è il luogo sicuro, quello della verità della persona. Sono cambiati molti parametri e una nuova visione antropologica ne dovrà tenere conto.

Paul Ricoeur, analizzando le umiliazioni che, nel corso dei secoli, hanno portato l’umanità a diventare più fragile e a percepire una caduta delle sicurezze, ne identifica tre: l’umiliazione cosmica, ovvero quella copernicana; l’umiliazione biologica, il darwinismo, e la psicologica, con la scoperta freudiana dell’inconscio. Il Cristianesimo potrebbe fungere da motore di riunificazione, di riscoperta del valore della singola persona, in quanto rompe con la visione classica per cui l’immutabile è sempre positivo e il divenire sempre negativo. Tuttavia, la ragione umana è oggi indebolita e la tecnologia viene offerta come risposta a questa fragilità del ragionamento. Lo strumento, però, non può dare risposte soddisfacenti, non possiamo aspettarci che l’intelligenza artificiale, in quanto mezzo, sviluppi da sola una sua etica di utilizzo. Max Horkheimer, preoccupato dalle derive che avrebbero potuto manifestarsi in futuro circa la tecnologia, scriveva: «La macchina ha gettato a terra il conducente e corre impazzita nello spazio». La soluzione a questo rischio è quella di prendere consapevolezza della situazione attuale nella quale a un’onnipotenza tecnologica corrisponde un’impotenza culturale. Al massimo di potere intorno ai mezzi coesiste il minimo di sapere intorno agli scopi, come rilevava Hans Jonas, e per uscire da questo nichilismo abbiamo bisogno di una nuova antropologia che segni il confine tra il necessario e il superfluo, di un’antropologia che si occupi dell’economia, dei consumi e della tecnologia, senza mai diventarne schiava.

 

Bibliografia

 

  • Alici L., Liberi tutti. Il bene, la vita, i legami, Vita e Pensiero, Milano 2022
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  • Bianchi M., Consumo, in L. Bruni - S. Zamagni, Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, pp. 234-239
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  • Piromalli E., L’alienazione sociale oggi. Una prospettiva teorico-critica, Carocci, Roma 2023
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  • Sarthou-Lajus N., Vertigine della dipendenza, Vita e Pensiero, Milano 2023
  • Trentemann F., L'impero delle cose. Come siamo diventati consumatori. Dal XV al XXI secolo, Einaudi, Torino 2017
  • Westacott W., Frugalità. Storie della vita semplice, Luiss University Press, Roma 2017
  • Zamagni S., L’economia del bene comune, Città Nuova, Roma 2007

Mercoledì, 07 Febbraio 2024 | Aurora Ghiroldi