Umanesimo di resistenza
Interrogativi «Buccia» di Maurits Cornelis Escher, una xilografia stampata nel maggio 1955

Umanesimo di resistenza

Confronti Quale il senso delle parola «uomo»? Neuroscienziati, filosofi, teologi e giuristi chiamati da monsignor Canobbio a rispondere all’interrogativo nel prossimo anno di corsi dell’Accademia cattolica

Un tema costante della riflessione filosofica dell’ultimo secolo? L’umanesimo, verrebbe da dire. Bastino questi titoli: Umanesimo integrale (1936) di Jacques Maritain, Il dramma dell’umanesimo Ateo (1945) di Henri De Lubac, L’esistenzialismo è un umanismo (1946) di Jean-Paul Sartre, Lettera sull’umanismo (1947) di Martin Heidegger, Umanesimo dell’altro uomo (1972) di Emmanuel Levinas. Autori tra loro distanti e in aperto dissenso: chi neoscolastico, chi esistenzialista, chi teologo, chi intento a distruggere la metafisica per ripensare il concetto di essere, o chi, ebreo, intento a fondare un’etica.

Pensatori, tuttavia, accumunati dal tentativo di dare una risposta al collasso della cultura europea con i totalitarismi politici e con la catastrofe della shoah, dove l’umano s’era dissolto nel fumo di Auschwitz.

Che ne è di una cultura che, pur avendo posto al suo centro il destino dell’uomo, non ha saputo porre barriere a questo orrore? Era la domanda sottesa, in modo più o meno esplicito, a questi libri. Se questa era l’urgenza storica, una inquietudine di lungo periodo ha attraversato la riflessione filosofica più avvertita, e ben presente in quelle stesse opere: la consapevolezza che l’uomo, che ha celebrato la proprie gesta e la propria centralità nel Moderno, da almeno cinque secoli stava avvertendo un progressivo spossessamento del proprio ruolo nella natura, nella storia e nel cosmo. Una inquietudine espressa con cristallino disincanto in una celebre pagina di Freud di Introduzione alla psicoanalisi, quando ricordava le tre grandi mortificazioni che il narcisismo dell’uomo ha dovuto subire in questi secoli: la prima con Copernico e la scoperta che la «terra non è il centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile»; la seconda con Darwin e la teoria dell’evoluzione, che «annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione e dimostrò la sua provenienza dal regno animale»; la terza mortificazione è quella arrecata dalla psicoanalisi, avendo mostrato, con la scoperta dell’inconscio, che l’Io non è «padrone in casa propria».

La domanda sul significato della categoria umanesimo nel Novecento nasce quindi da un’emergenza etica e teoretica: far fronte nell’immediato a una tragedia storica e, sul lungo periodo, a un triplice scacco ontologico. E oggi? Se sul piano storico, almeno in un lembo di nazioni, il riconoscimento costituzionale dei diritti dell’uomo appare un fragile argine al rischio della barbarie politica, sul piano culturale non stiamo assistendo alla quarta mortificazione del narcisismo dell’uomo? Cosa è la rivoluzione delle neuroscienze, con la scoperta che centrali sono i processi neuronali, se non un ulteriore spossessamento del soggetto nella regia della propria vita? Al punto che la metafora del cervello sta prendendo il posto che ha avuto per millenni la metafora dell’anima: il vero protagonista dell’esistenza, al di là della consapevolezza che ne hanno gli uomini. Una quarta rivoluzione che interroga ancor più radicalmente la filosofia e la teologia sul senso delle parole «uomo» e «umanesimo».

Un interrogativo che è alla base della decisione di Giacomo Canobbio, direttore della Accademia cattolica di Brescia, di dedicare il prossimo anno accademico a questa nuova sfida del sapere, coinvolgendo neuroscienziati, filosofi, teologi e giuristi. Strano paradosso quello della parola «umanesimo»: usata per celebrare le potenzialità dell’uomo, pare divenuta un concetto di «resistenza antropologica».

Forse, non è un caso che riflettendo sul destino dell’umano i grandi umanisti, primo fra essi Pico della Mirandola, mettessero in gioco la parola dignità. Quasi, inconsapevolmente, preavvertissero che solo ancorando l’uomo alla sua dignità si potesse affermare che la sua umanità sta nell’essere considerato come un fine, e non trattato come un mezzo. La storia degli ultimi secoli non è insieme la conferma e la smentita di questa verità custodita nel lemma «umanesimo»?

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