«Bisogna resistere alla cultura dei lamenti»

«Bisogna resistere alla cultura dei lamenti»

Un confronto fra teologia ,filosofia e scienza. «Sintesi di un cammino che in tre anni ha fatto scoprire i valori e le ragioni delle religioni»

L’Accademia Cattolica di Brescia, per chiudere il ciclo dedicato a «Identità e soggetto nella prospettiva di un futuro dell’umano», ha invitato a confrontarsi Marco Vivaldo, filosofo dell’Università di Napoli, Giovanni Cesare Agazzi, teologo della facoltà dell’Italia settentrionale e Ornella Parolini, scienziata del Centro Ricerca della Poliambulanza.

L’appuntamento con filosofia, teologia e scienza, in programma domani dalle 9 nella sede dell’Accademia (in via Gabriele Rosa, 30) è di quelli da non perdere. «Infatti - almeno secondo monsignor Giacomo Canobbio, che dell’iniziativa è stato ispiratore e principale attore - difficilmente tre rami del sapere così diversi tra loro hanno la possibilità di mettere in chiaro, ciascuno con le proprie peculiarità, ambiti, prospettive e pensieri». Non solo tre rami del sapere umano che si confrontano, anche l’occasione, spiega monsignor Canobbio, «per fare sintesi di un cammino che in tre anni ha proposto alla Città dell’Uomo, cioè a chiunque avesse tempo e desiderio di avvicinarsi ai grandi temi che accompagnano il vivere e il progredire, innanzitutto di scandagliare i rapporti con le religioni per scoprire valori e ragioni racchiusi in ciascuna; poi di entrare nel sapere scientifico per capire quale vissuto dell’umano si profili così da indurre la società a smetterla di considerare l’uomo all’interno della natura come uno dei tanti elementi e di collocarlo invece al vertice di ogni considerazione; infine, di confrontarsi con i saperi umanistici per vedere come questi considerino l’uomo e per capire che umano ci stia davanti e in che modo sia possibile custodirlo».

Monsignor Giacomo Canobbio è il delegato vescovile per la cultura e direttore scientifico dell’Accademia Cattolica. Nel suo studio al primo piano della palazzina dell’ex Seminario ancora riservata al clero, prevale un senso di ordinata quotidianità, in cui anche i libri, tanti e puntigliosamente catalogati, ubbidiscono alla logica di una mente abituata a offrire riferimenti certi anche su temi incerti come la fede, il bene, il male, la giustizia, la verità o la libertà, l’umano e il suo cammino verso una società che di umano conserva assai poco.

Ciononostante, monsignore, c’è chi la ritiene «buono» per ogni evenienza...

«In realtà sono soltanto quel monsignore che all’occorrenza va, volentieri per altro, in parrocchia ad amministrare cresime o a spiegare l’ultima enciclica del Papa, il penultimo documento del vescovo, o semplicemente a confessare, benedire, pregare e disquisire sui temi d’attualità».

Poi vengono l’Accademia,le conferenze, gli inviti a convegni e simposi, le lezioni all’Università e al Seminario, la cura delle anime e quella Messa celebrata ogni domenica nella parrocchia di Sant’Antonio, quella in cui fu parroco-cardinale padre Giulio Bevilacqua...

«Quella Messa celebrata dove padre Giulio fu parroco-cardinale mi riporta ogni volta a ripensare la storia e a rendermi conto del valore assoluto dello Spirito; tutto il resto, mi creda, è una conseguenza. Così, l’Accademia Cattolica serve a ragionare e far ragionare su temi cosiddetti alti, ma non per questo, o forse proprio per questo, fondamentali al buon vivere della città dell’uomo; università, lezioni, conferenze, dibattiti e convegni, incontri, invece, sono le incombenze richieste a un prete a cui il vescovo e la chiesa hanno chiesto di studiare e di approfondire il sapere non per sé, ma per trasmetterlo agli altri. Che poi è anche il compito che si è assunta l’Accademia».

Per l’appunto: cosa significano questi ultimi tre anni di discussionisull’umano?

«Che c’è un umano minacciato o, se non proprio così minacciato, sicuramente in crisi. Sono in crisi le relazioni e difficile è il confronto tra sapere, religioni, culture diversi».

Quindi?

Quindi si tratta di interrogarsi sul come si può resistere di fronte a una cultura che crea lamenti piuttosto che pensieri pensati».

Per farlo siete partiti dalla Città dell’uomo ancor tutta da disegnare e costruire...

«Si trattava di dare un senso compiuto alla sete di convivenza civile, di multiculturalismo e di multireligiosità, che secondo noi erano i presupposti per dare un volto nuovo alla città».

E a quale conclusione siete arrivati?

«Abbiamo visto una città dell’uomo variegata, in cui albergano pluralità di visioni, ma anche aperta e disposta al dialogo. Certo, spesso timorosa e preoccupata per la somma di “altri” che arrivano e partono, che chiedono spazio, rappresentatività, ascolto».

E tutto questo che cosa produce?

«Crea paure, soprattutto in coloro che vedono le proprie convinzioni e le proprie consolidate abitudini messe in discussione.Così facendo tentano di conservare ciò che, invece, in un mondo in continua evoluzione, non è più conservabile. Quel che sfugge, o che si vuole mettere in secondo piano, è il carico di conseguenze che derivano dalla troppa conservazione. Qualche esperto arriva a dire che “di troppa conservazione si muore”. Credo ipotizzi, pur troppo, scenari non lontani».

Tutta colpa della globalizzazione?

«Se per globalizzazione s’intende occupazione degli spazi senza far tesoro delle ricchezze portate nel nostro cortile da gente diverse e proveniente da territori diversi, sì. Sarebbe invece il caso di intendere la globalizzazione nella sua eccezione migliore: un insieme di persone e di territori che cercano giorni da vivere e da condividere. Questo implica essere più cattolici di quanto siamo».

L’ Accademia che lei presiede, però, purandando in questa direzione, sembra essere di pochi e per pochi. È così o è soltanto un’impressione?

«Si chiama “cattolica” perché vorrebbe essere per tutti. Ciò non la rende immune da un certo deficit di comprensione, semmai la rafforza nella sua convinzione di essere terreno ideale per un confronto coraggioso e sincero tra culture diverse, qualche volta assai scomode e difficili da accettare nella loro complessità e diversità. Secondo alcuni questo modo di procedere, poiché mette in discussione tesi e abitudini consolidate, può costituire una seria minaccia. Per noi, invece, ogni confronto leale è fonte di arricchimento e di conoscenza reciproca».

Per voi sì. Ma questo beneficio è percepitoanche dalla città?

«Purtroppo, no! Infatti, per qualcuno, la nostra sembra essere una riflessione fatta da gente che ama perdere tempo. Invece e per fortuna, per tanti è uno stimolo a capire la complessità dell’umano che ci circonda. Questo “capire” è il presupposto su cui si fonda la certezza di buon futuro. Per diventare complici di questo capire per costruire un futuro degno d’essere condiviso, non basta lamentarsi».

In verità, primi a lamentarsi sono proprio i cittadini...

«In effetti, sono proprio loro che fanno più fatica a riflettere, che hanno paura, che si bloccano di fronte a qualsiasi novità, che chiudono gli occhi per non vedere il temporale che arriva».

Non c’è molto di cui rallegrarsi, non le pare?

«In giro mi pare vi siano anche non pochi segni positivi. Ma è evidente che per renderli maggioranza è necessario risvegliare le coscienze delle persone, stimolandole a pensare... Per esempio, se voi, espressione della comunicazione mediatica, incominciate a preoccuparvi con più costanza di formare rifuggendo dai facili slogan o dagli scontati stati emotivi, forse aiutate il cittadino a comprendere la bellezza delle diversità che lo circondano. Ovviamente servono percorsi che aiutino a divenire persone belle, armoniche, magari anche più civili».

Al tema che accompagnerà l’Accademia nel prossimo anno avete dato il nome di «Ethos, desideri-legge». Che cosa significa?

«Vorremmo aiutare la città dell’uomo a interrogarsi se è lecito che ogni desiderio diventi diritto. Non sarà facile e neppure agevole scardinare modi di pensare consolidati. Però, forse vale la pena provarci».