Le nuove frontiere e i limiti della cura

Scrive Iona Heath, medico di famiglia, in Modi di morire [1]

Come Medico di famiglia sono cosciente di deludere molti dei miei pazienti, soprattutto chi sta morendo. Perché solo pochissimi tra i nostri pazienti muoiono di una morte che si potrebbe riconoscere e descrivere come una buona morte ? ..Parlando con amici e Colleghi, scopro che sono in molti a poter raccontare il loro coinvolgimento in una morte davvero speciale, in cui il morente era riuscito a controllare e orchestrare il processo e a morire con una dignità e una serenità che avevano dato a chi stava accanto, incluso il medico, la sensazione che prendervi parte fosse un privilegio e una misteriosa forma di arricchimento. Ciò che colpisce, tuttavia, è quanto siano rare queste morti.

Inizio…dalla fine.

Perché la fase del “ morire” che attraversa ogni essere vivente (anche se siamo abituati a chiamarlo morente, in realtà si tratta di un persona ancora viva !) è la scuola più importante dove si impara a curare, ci si confronta con i limiti delle terapie, si sperimenta l’impotenza a fronte dell’ineluttabile, si fugge oppure si affronta la domanda di significato.

Come Medico di famiglia mi chiedo, a fronte di un “fallimento” della Cura… “che cosa è andato storto?”. Sono consapevole del mio ruolo di medico “generalista” che ha, tra gli altri, il compito di orientare la cura secondo una visone olistica, ricomporre la frammentazione propria dell’approccio specialistico, focalizzare l’attenzione sulla variabilità dei malati piuttosto che sulle molteplici malattie, tuttavia in qualche caso “qualcosa va storto”.

La risposta a questa domanda, potrebbe sembrare scontata: spesso i medici compiono errori di tipo clinico, molto più spesso si tratta di vizi di comunicazione, ma la risposta è molto più complessa e, con molta umiltà, cercherò di rilevare alcuni aspetti che nella mia vita professionale ho trovato essere importanti per affrontare il problema della Cura al Malato … entrambe le parole hanno dignità di una prima lettera maiuscola.

Già questa prima considerazione mi è parsa rilevante nel cercare di definire cosa è la Cura. Francesco D’Agostino, in una introduzione ad un libro che ho curato sulle cure palliative,[2]. Il termine latino cura e quello greco therapeia hanno etimologicamente lo stesso significato fondamentale, quello di sollecitudine, servizio, culto. Nella valenza originaria però entrambi i termini fanno piuttosto riferimento a un modo di essere dell’Uomo. Per aiutarci a comprendere D’Agostino ci ha riportato questa “favola” di Igino…

“La Cura – scrive Igino –[3], mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso: pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre era intenta a stabilire che cosa avesse fatto, intervenne Giove. La Cura lo pregò di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì volentieri.

Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente, giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a quest’ essere, fin che esso vive, lo possieda la Cura . Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus”.

Scrive Heidegger [4] commentando questo testo: “Questa testimonianza preontologica assume un particolare significato per il fatto che essa non solo vede nella “Cura” ciò a cui l’uomo appartiene “per tutta la vita”, ma perché questo primato della “Cura”’ vi risulta connesso alla nota concezione dell’uomo come compositum di corpo (terra) e spirito”

Ancora d’Agostino definisce la Cura come “una delle modalità costitutive della relazionalità antropologica, il necessario reciproco affidarsi degli uomini come esseri indigenti” …ci si prende cura dell’altro, perché è nell’altro ed è attraverso l’altro che ciascuno di noi è se stesso.

Al contrario il termine “terapia” ricorda a tutti noi l’esigenza di affrontare le malattie ed indubbio che le terapie siano parte della Cura e che i grandi progressi della scienza medica abbiano permesso di valorizzare l’Uomo. Quindi più che un dualismo tra Terapia e Cura (l’una rivolta alle malattie, l’altra all’assistenza del malato) deve esserci complementarietà. Purtroppo non sempre ciò si realizza … e i malati lo sanno: possono anche abbandonare il grande “terapeuta” in cerca di un “curante” che li ascolti, si faccia carico, li accompagni… addirittura indipendentemente dal fatto che i curanti siano dei medici. Peraltro la storia “Di Bella” (pur con tutte le cautele del caso) ci ha insegnato quanta parte ha “l’accompagnamento” (ascolto, disponibilità di tempo, accoglienza etc) nel contesto della cura ai malati inguaribili.

Il medico è “già” parte della cura e non solo colui che cura. Sapere come “somministrare se stessi” è già parte della cura [5].

Il primato della cura deriva poi da almeno tre fattori affatto trascurabili.

Il primo di essi è che a fronte di malattie che non conoscono terapie efficaci, tutti i malati, assolutamente tutti, possono sempre essere curati. Essere curati è un diritto umano fondamentale e se è vero, come è vero, che non può esistere un “diritto alla salute”, inteso come un assoluto, certamente un assoluto è il diritto alla cura.

Il secondo è che se è legittimo e possibile rinunciare alle terapie (rifiutare alcune terapie) di fatto non si rinuncia alla cura. E’ possibile rinunciare a curare da parte del curante (abbandono), ma questo riflette sempre una rinuncia alla propria umanità, ai propri doveri, a “se stessi”.

Da ultimo, soprattutto nei densi momenti dell’accompagnamento del malato verso quello che Antonio Autiero chiama “il confine alto della vita”, la cura non è un bene solo per il malato ma anche per chi la pratica. Il medico si interroga e acquisisce esperienza: il morire e la morte dell’altro è l’unica esperienza di morte possibile per un uomo, occasioni preziose per elaborare un significato sulla vita e sulla morte che valga per sé.

Solo di qualcuno o di qualcosa ci si può prendere Cura. Viviamo in un contesto in cui la “super-specializzazione” della scienza medica focalizza l’attenzione sulle malattie e stila protocolli di comportamenti (Linee Guida) per trattamenti appropriati.

Per altro l’epidemiologia insegna le strategie di cura nei confronti delle popolazioni, ma l’oggetto della Cura non può essere che l’Uomo.

Quando diciamo malato allora pensiamo prima di tutto ad un rapporto con una persona.

Se si riflettesse più a fondo sul significato dell’incontro curante-malato come relazione tra persone sarebbe più facile la soluzione di tanti dilemmi affrontati dalla bioetica ! Malato come persona unica, eccezionale, irripetibile, “individuo-singolare”, che ha una dignità di per sé. E’ in gioco una immagine dell’umano che non condiziona la dignità della persona alla presenza di alcune sue qualità (autonomia, performances, funzioni cognitive integre), ma al valore intrinseco dell’uomo in sé.

Nella visione cristiana “L’Uomo è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” [6], ma senza scomodare Dio, è umano pensare che è la persona in quanto tale che ha valore di per sé, quindi è “indisponibile” ad altri fini che non sia la sua realizzazione e promozione.

La relazione curante-malato allora è prima di tutto un incontro tra persone con la loro dignità, che esigono il rispetto reciproco delle proprie convinzioni, la non prevaricazione e strumentalizzazione.

Tutto questo si traduce in quella che viene chiamata comunemente “alleanza di cura”. La definizione è molto semplice: si tratta dell’incontro tra due persone esperte: il medico, esperto di malattie e il malato, esperto di sé stesso. E’ da questo incontro che nasce il progetto di cura e allora è più semplice applicare i principi di bioetica che tutti conosciamo (autodeterminazione, beneficienza, giustizia) perché il tutto si inscrive in questa alleanza tra due persone, di pari dignità, con un senso di profondo rispetto per le scelte altrui, ovviamente nel campo di ciò che è umanamente lecito.

Tuttavia quella che oggi viene comunemente chiamata relazione medico-paziente, si è molto modificata e a dire il vero più per una “emancipazione del paziente” (come la chiama Diego Gracia [7]), che per una presa d’atto dei medici (alcuni dei quali mal sopporta la scomparsa di un sano paternalismo).

Il paziente oggi applica anche alla medicina quello che viene chiamato il “linguaggio dei diritti”, ma questa giusta presa di posizione di chi ha bisogno di cure (che comunemente chiamiamo paziente, molte volte è un malato) porta a due considerazioni.

La prima, che va nel senso della autonomia della persona, è il giusto riconoscimento che le decisioni su come procedere debbono coinvolgere il malato. In un corposo documento, destinato ai Medici di Famiglia inglesi, il Sistema Sanitario del Regno Unito - NHS (Equity and execellence: liberating the NHS) dedica un intero capitolo all’empowerment che si traduce in “No decision about me without me”[8]. Peraltro vi è evidenza che le cure “condivise” (l’articolo si intitola “il fattore umano”) migliorano l’aderenza terapeutica, la qualità di vita fanno risparmiare molte risorse [9]. Quindi “la cura efficace” ci proietta in una immagine dell’umano che è prima di tutto rispetto della altro, delle sue idee, delle sue convinzioni, della sua religione.

La seconda considerazione è che ovviamente il principio del rispetto vale anche per il malato nei confronti del curante. Se la domanda del malato è legittima, il diniego da parte di chi cura è altrettanto legittimo. Non solo quando la richiesta tocca temi delicati o beni indisponibili, come la vita (domanda eutanasica), ma molto più frequentemente, nel mio ambulatorio di tutti i giorni, quando le richieste sono non appropriate.

E’ il rovescio della medaglia che esprime non tanto nuovi bisogni di salute, ma fa parte di una vera e propria cultura che permea la società oggi e travalica gli aspetti della medicina.

E’ la “cultura del desiderio” per cui tutto può e deve essere soddisfatto, a qualsiasi costo e senza alcun limite se non quello dettato dalla impossibilità oggettiva di realizzarlo, anche se , dice Schopenauer , “ Ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo è appena simile all’elemosina, che oggi tiene in vita il mendico perché domani ancor soffra la fame” [10]. E’ il “felicismo” di Giorgio Cosmacini [11] per cui si rincorre con ogni mezzo non solo il benessere, ma anche il bel-essere attraverso la tecno-medicina e l’Autore si chiede se tutto questo non porti invece al “paradosso della felicità” per cui questa non aumenta affatto in questo spasmodico processo alla ricerca del meglio.

Quando il “linguaggio dei diritti” si incontra con la “cultura del desiderio” allora iniziano i guai … desiderio/diritto ad avere un figlio, desiderio/diritto di morire, molto più banalmente desiderio/diritto di assumere in modo non appropriato un farmaco, di eseguire in modo non appropriato indagini … pensate a quante richieste non appropriate riceve ogni giorno un medico di famiglia: indagini costose che gravano su l’intera società (Risonanza Magnetica, TAC etc, esami particolari consigliati dal Dr. Internet etc).

Ma desidero riprendere il tema a me particolarmente caro delle Cure Palliative, perché esse rappresentano un paradigma di come si dovrebbe “avere cura” delle persone e dove l’immagine dell’uomo (chi cura e chi è malato) appare in tutta la sua fragilità.

A questo proposito D’Agostino nella introduzione al mio libro: “Perché, se la palliazione è un bene per il malato, è, nello stesso tempo, un bene per chi la pratica: quando l’alleanza terapeutica si dilata e si trasforma in una allenza palliativa è come se due destini venissero a intersecarsi: il palliatore assume attivamente la cura della salute fisica del malato e il malato a sua volta, passivamente, assume quella della salute umana e professionale del palliatore. In questa dialettica possiamo leggere in controluce l’incredibile densità antropologica, semantica ed etica della cura”

Come faccio a tradurre in pratica questi concetti fondamentali, che cosa debbo focalizzare con attenzione senza perdermi di fronte alle richieste di vita a cui io non sono in grado assolutamente di rispondere oppure, peggio, come rispondo alla richiesta di “morire”? E ancora come cristiano: come permettere che questo “segmento” di vita terrena, vero, intenso, intriso di sofferenza, in cui emerge forte la domanda “di significato” (perché a me ? che senso ha ?) sia “degno” di essere vissuto pienamente.

Mi hanno aiutato a rispondere a queste domande alcune considerazioni che riguardano la società e l’etica. Il contesto culturale che oggi caratterizza il morire è dominato dalla “negazione della morte”. Attorno alla morte non c’è cultura, non ci sono parole o simboli capaci di far vivere socialmente questo evento, che permettano di parlare della morte e insieme con il morente. Oggi si assiste alla “medicalizzazione” del morire e si vorrebbe programmarlo (ritardarlo/anticiparlo), in ogni modo dominarlo[12] .

Tutto ciò porta ad una strategia che prevede la negazione o il controllo: proteggere il malato dalla consapevolezza della morte, concentrare ogni sforzo per prolungare la vita a qualunque costo, tentare di anticipare la morte. E’ possibile pensare ad una strategia diversa, quella dell’accompagnamento, che ha come presupposti antropologici il riconoscere che il “morente” è un persona, che ha una dignità intrinseca, di per sé, capace fino all’ultimo di fare della propria vita una esperienza di crescita e di compimento.

La parola quindi che meglio rappresenta le cure palliative è “accompagnare”, farsi “compagni di viaggio”. Le decisioni durante il periodo di “accompagnamento” coinvolgono sempre più questioni radicali: questioni in cui è in gioco il senso umano della vita nei suoi momenti più significativi: il senso umano del nascere, il senso umano del soffrire, il senso umano del morire.

E’ questo il motivo di fondo per cui il campo sanitario è diventato il luogo dove più immediatamente si scontrano le diverse impostazioni morali presenti nella nostra società. Per rendere semplici , schematici e sintetici i compiti di chi si appresta ad accompagnare malato e famiglia ho proposto l’ABCD delle Cure Palliative.

Alleviare la sofferenza fisica

L’etica personalistica, che mette al centro la persona e che soprattutto le riconosce una dignità “di per sé” mette in risalto la necessità che il “morire” dignitoso sia prima di tutto dare la possibilità alla persona di esprimere le sue emozioni, di formulare richieste, desideri, di continuare ad essere in relazione con i suoi cari. Nella prospettiva dell’accompagnamento si da valore al tempo del morire e nella maggioranza dei casi la sofferenza fisica non costituisce una scelta della persona, ma è una condanna conseguente alla “malapratica” degli Operatori. La sofferenza fisica e prioritariamente il dolore inchioda nell’isolamento, distrugge ogni possibilità di vivere come persona: cioè di entrare in relazione con il mondo: non è possibile il dialogo, l’esplicitazione dei bisogni, ma anche il semplice dedicarsi alla lettura, a guardare la TV, ad ascoltare musica… Sedare il dolore diventa un obbligo morale.

Bisogni da identificare e comprendere

IL BISOGNO DELLA VERITA’. Riguarda non tanto la conoscenza dettagliata della malattia, quanto della prognosi.

Negare la possibilità di conoscere il proprio destino significherebbe infatti negare la possibilità che egli possa esercitare il suo diritto di decidere cosa fare (principio di autodeterminazione). Il problema a non è contenibile entro l’alternativa “dire” o “non dire”: è molto importante valutare tempi e i modi per lasciare il malato “venire alla sua la verità”. A questo proposito (tempi) la Organizzazione Mondiale (OMS) della Sanità, in una sua prima definizione di Cure Palliative, evidenziava soprattutto le “cure di fine vita”. Più recentemente sia l’OMS, sia le Società Scientifiche che si occupano di questo argomento hanno evidenziato invece come sia necessario un approccio precoce (early palliative care), oggi si sta ragionando di iniziare l’approccio palliativo quando si è ancora lontani dall’evento morte, anche alcuni anni prima. Vi sono evidenze che l’identificazione precoce di questi malati e il conseguente approccio palliativo migliori la qualità di vita dei malati, rassereni i famigliari, renda meno frequente il ricovero negli ospedali per acuti, porti a diminuire drasticamente i decessi nei reparti di rianimazione e dettaglio non trascurabile di questi tempi, porti un sensibile risparmio di risorse sanitarie. Sarete senza dubbio stupiti nel sentire per ottenere tutti questi benefici i dati di letteratura concordano nel fare una cosa apparentemente “semplice”: iniziare parlare loro di “inguaribilità”, di prognosi e contemporaneamente permettere loro che siano esplicitati i bisogni, soprattutto quelli non clinici e non espressi, per esempio i bisogni spirituali. Come, con quali tecniche, in presenza di quali persone sia utile e opportuno l’approccio alla in guaribilità fa parte dell’arte difficile di chi ha scelto di fare il medico di famiglia e non il ricercatore di biochimica !

IL BISOGNO DI VIVERE LA TERMINALITA. I malati chiedono di poter “vivere” la fase terminale (abbiamo già ricordato come con il termine morente in realtà si condanni il malato ad un periodo di “non-vita”). La possibilità di vivere dipende dalla possibilità di esprimere i propri reali sentimenti: rifiuto-negazione, rabbia-collera, negoziazione-patteggiamento, depressione-disperazione, accettazione-accoglienza.

IL BISOGNO DI PERCEPIRE ATTORNO LA STIMA PER LA PROPRIA PERSONA. Il senso di svalutazione che, a causa del deterioramento prodotto dall’avanzare del male, il malato può avvertire, dipende molto dall’attitudine e dallo “sguardo” degli Altri. Il malato si percepisce in larga misura come è percepito. Lo sguardo di chi assiste può confermare oppure addirittura amplificare il senso di svalutazione.

IL BISOGNO DI TENEREZZA. Nel malato che sta morendo il ragionamento logico è perturbato. Emerge una sorta di coscienza affettiva. Le parole diventano povere. E’ tempo di semplificare le cose : è tempo di tenerezza attraverso gli sguardi, il sorriso, le carezze …

IL BISOGNO SPIRITUALE: Il bisogno di carattere spirituale emerge sempre: perché sto soffrendo ? Qual è il senso di tutto ciò, della vita, della morte ? Che cosa ho fatto di male nella vita ? Vorrei essere perdonato … Non è sempre necessario dare risposte di contenuto, è importante “esserci” poiché il travaglio spirituale ha bisogno di un testimone.

Cure Proporzionate

Due sono i maggiori pericoli nell’ambito delle cure palliative: l’approccio “vitalista” rappresentato dalla ricerca di un accanimento terapeutico (prolungare la vita fisica ad ogni costo) e quello dell’abbandono (rinuncia ad ogni tipo di intervento medico, anticipazione della morte). Le cure proporzionate rappresentano oggi la concreta risposta alla strategia eutanasica. E’ importante avere chiaro cosa non è eutanasia. NON E’ EUTANASIA: la terapia antalgica che in fase terminale può portare ad abbreviare la vita del malato, la sedazione profonda che viene praticata per togliere lo stato di coscienza in presenza di sintomi non altrimenti trattabili, l’astensione o l’interruzione di trattamenti ritenuti inutili, futili o non opportuni, il rifiuto da parte del malato di cure che lui ritiene sproporzionate, il distacco di mezzi di respirazione artificiale a fronte ad una morte cerebrale accertata, la sospensione dell’alimentazione artificiale se questo non determina direttamente la morte.

Decodificare le richieste di morte

La richiesta di morire abitualmente non è una richiesta eutanasica, intesa come consapevole richiesta di voler porre fine alla propria vita anticipatamente, ma assume importanti significati che i “curanti” devono saper ricercare. Accompagnare il malato (farsi compagni) significa acquisire la capacità di “decodificare” la richiesta di essere aiutati a morire, significa “camminare accanto” al malato senza pretendere di imporre una precisa direzione, ma in un contesto relazionale fatto di accoglienza. L’accoglienza si instaura praticamente con l’atteggiamento dell’ascolto: ascoltare quello che dice il malato, ma soprattutto quello che “non dice”.

La domanda “Dottore mi faccia morire” può nascondere “calmate in ogni modo il mio dolore, così non riesco più a vivere!” oppure “credete che nonostante tutto la mia vita abbia ancora un senso?” o ancora “Mi sento in colpa perché peso tutto si di voi!”.

E’ vero però che nessuno può essere di aiuto ad un malato morente se prima non ha affrontato il problema della sua morte e della sua sofferenza, se prima non ha trovato per sé un significato alla morte e alla sofferenza.

Ma saper “decodificare” non è sufficiente. Racconto brevemente la storia di una Signora, che chiamerò con nome di fantasia Maria, che alcuni anni fa mi ha messo in seria difficoltà

Maria, una di quelle pazienti che ricordi quanto viene a visita per la sua freschezza e bellezza nonostante i suoi 51 anni.

Dopo quattro anni un cancro alla mammella molto aggressivo che l’ha costretta ad una continua peregrinazione nei centri di eccellenza per la cura dei tumori, avanza inesorabilmente .

A fronte di una prognosi di alcuni mesi la caparbietà nel voler sperimentare nuove terapie innovative le consentono di controllare la progressione del cancro nonostante la presenza di metastasi multiple alle vertebre e al fegato.

Ha l’appoggio pieno e solidale del marito con cui ha un solido rapporto e dei figli: Enrica che ha visto laurearsi e Corrado proiettato nel lavoro della piccola azienda di famiglia.

Ma arriva il momento in cui la scienza medica deve “gettare la spugna”…

Le diverse scuole di oncologia concordano che non vi è più spazio per nessuna terapia volta a stabilizzare il quadro. Maria ne è consapevole, ma il suo cruccio è che il marito rifiuta categoricamente di desistere dalla lotta contro il cancro.

Maria fa di tutto per mascherare i suoi sintomi, continua ad andare in ufficio nonostante la stanchezza fisica, il dolore (che è comunque controllato dalla terapia), la sua depressione. Si sa truccare e vestire come sempre e nessuno sospetterebbe che la fine è prossima. Questa apparenza di “salute” rende il marito ed i figlia ancor più increduli e quasi arrabbiati quando sollecitato dalla paziente spiego gli obiettivi di cura che non comprendono né la guarigione né la stabilizzazione della malattia.

Le condizioni cliniche rapidamente decadono, Maria è allettata, con una voluminoso addome (ascite, cioè acqua libera nell’addome), che determina difficoltà di respiro. In ospedale ha già effettuato diverse volte la paracentesi (estrazione del liquido dall’addome), ma è sempre stata malissimo e il solo pensiero di tornare in ospedale per questo la angoscia. E’ presente un dolore sordo, è molto stanca e inappetente e non riesce a deglutire. Ha spesso la nausea con qualche episodio di vomito e fa molta fatica a scaricarsi..

Durante le visite giornaliere chiede al Medico di Famiglia di stare solo con Lei e le sue richieste sono polarizzate e fisse: “ “Dottore, sono molto, molto stanca…ho fatto di tutto, ma adesso basta ! …I miei famigliari sono tutti a posto, mi vogliono bene, ma non c’è più niente da fare, adesso tutto è inutile, tutto diventa inutile: per favore non mi faccia fare questo sentiero…Che cosa cambia rimanere qualche giorno in più… Non accetto una vita così, questa non è vita ! parliamo seriamente …mi capisce dottore cosa intendo ? So che potrei farlo anch’io, ma vorrei che mi aiutasse e soprattutto non voglio che mio marito e nessuno sappia…me lo promette ?”

Maria viene curata “al meglio”…

Una ottima assistenza infermieristica, due visite al giorno insieme ad una impostazione rigorosa della terapia medica permette di controllare in modo pressoché perfetto il dolore. Regredisce la nausea (riesce a mangiare addirittura le lasagne !), scarica regolarmente, è sorridente e ha voglia di scherzare soprattutto sulle mie cravatte…Viene eseguita la paracentesi a casa, con la figlia che la coccola nel lettone di famiglia…Maria non se ne accorge nemmeno ed è felicissima di questo perché le permette di respirare molto meglio. Tuttavia chiede sempre di restare sola con il medico …gli occhi sorridenti implorante ed esploranti… ”Dottore, allora me lo vuol far fare proprio tutto questo cammino !” Ma non vede come sto bene ! Adesso è il momento. Mi diceva che avevo ancora tante cose da insegnare ad Enrica..è vero in questi giorni che sto bene gli sto insegnando molte cose. Ma non basterebbe un'altra vita per insegnare tutto ciò che so ! La prego, dottore, voglio che mi ricordino così, serena e sorridente, con la mia dignità ! Vede come mi sto riducendo (e mostra le braccia ormai ridotte ad ossa ricoperte da pelle): Saluto tutti e via. Però mi prometta che questo sarà un segreto tra me e Lei !”

Questa richiesta è “martellante” (ad ogni visita), puntuale e lucida nella sua sconvolgente logica.

Si afferma spesso che la domanda eutanasica prospera dove le cure palliative sono assenti. Questo è vero, anche se non la estingue. Anche nei migliori servizi di cure palliative le richieste di “anticipare la morte” ci sono. Non desideravo dare una risposta che argomentava nel razionale delle mie convinzioni morali, né tanto meno, ricorrere agli aspetti deontologici e legislativi. Mi sentivo proprio in difficoltà.

Poi una idea…

Maria, non pensa che questo gesto, così rilevante, debba essere in qualche modo condiviso da chi le sta accanto, da chi le vuole bene ? Se posso avanzare un dubbio: pensa proprio che l’unica soluzione sia quella di escludere chi le sta attorno da questa scelta, in buona sostanza pensa che sia giusto “fare tutto da sola” ? Possiamo condividere questo suo desiderio con chi ha condiviso con lei fino ad oggi tutto…

Ricordo bene quello sguardo penetrante e il suo cenno affermativo con il capo. Un attimo e la stanza si animò: i due figli seduti vicino a lei, io in fondo al lettone e il marito in piedi sullo stipite della porta …

Lei, con la voce rotta dall’emozione, incominciò: “Volevo dirvi che sto proprio bene… ma la mia vita non ha più senso…così avrei deciso…”

Non arrivò a concludere la frase perché il marito con il suo vocione (e devo dire anche il suo vocabolario ricco di intercalari veneti…) incominciò la più originale dichiarazione di amore, sotto lo sguardo attonito dei figli, visibilmente coinvolti e d’accordo. Il senso di tutto era “ ti amo …sei per me la persona più cara, ogni secondo che stai in questa casa per noi è un regalo meraviglioso … non mi importa nulla del tuo aspetto, se mangi se sei dimagrita …tu sei ciò che di più prezioso ci resta…”…ma lo devo urlare ? proprio non lo capisci ?

Pochi interminabili minuti…poi lo sguardo è tornato su di me… ma era tutt’altro sguardo, “gli occhi felici” di chi ha avuto la sola conferma per cui vale la pena di vivere … soffrire... morire. L’Amore è ciò che ci motiva ad andare avanti “nonostante tutto” , che sconvolge i nostri piani e programmi…

Dottore …adesso ho capito”. E da quel giorno non più un solo accenno ad andarsene. Aveva trovato un significato profondo alla sua breve vita residua.

In conclusione, da medico cristiano, non posso esimermi da alcune riflessioni che mi toccano come credente. Sfatiamo il mito che il fatto di essere cristiani sia un antidoto alla sofferenza. Ancora di più che l’essere medici cristiani ci autorizzi a pronunciare sermoni al capezzale di chi sta morendo.

Il cardinale Veuillot, sul letto di morte ebbe a dire [13]: “« Nous savons faire de belles phrases sur la souffrance. Moi-même j'en ai parlé avec chaleur. Dites aux prêtres de n'en rien dire ; nous ignorons ce qu'elle est, et j'en ai pleuré. »…Dite ai preti di non dire niente…

Anche un cristiano, scrive Erika Schuchardt [14], non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada – insieme con Dio – che lo attraversi. Le tenebre non sono l’assenza, ma il nascondimento di Dio, in cui noi, seguendolo, lo cerchiamo e lo troviamo nuovamente”.

Dite ai preti di non dire niente.

La ricetta è l’ascolto attivo, come già detto, ma con un “plus” che ci deriva dal nostro credere che tutto non finisce con la morte. Scrive Enzo Bianchi nel suo piccolo ma efficace manuale [15]fra l’impotenza del mutismo e la presunzione arrogante delle parole certe e definitive, ci è chiesto di osare una parola, una parola umile che, sorgendo dal silenzio, riviva in se stessa il dinamismo pasquale della morte-resurrezione”. Come medici cristiani facciamo presto a riconoscersi nella parabola del buon samaritano…molto meno in quel brano di Vangelo che dice “ero malato e mio avete visitato”: qui “colui che va a visitare il malato ha la possibilità di scoprirsi lui visitato da Cristo malato”.

Lungi dal voler entrare in considerazioni teologiche da Medico Cristiano, che “di mestiere” visita i malati, è molto rilevante che il medico non si senta Cristo che visita il malato (ai medici occorre poco sentirsi Dio!) piuttosto che il medico stesso si senta visitato e uomo privilegiato nell’incontro con Cristo nel malato. Il Cristo si identifica con il malato e non con il visitatore: il malato è presenza di Cristo.

La più grande palliativista della storia, Santa Madre Teresa diceva: “Voi siete dei privilegiati perché quando toccate la sofferenza fisica e morale voi toccate costantemente Gesù sofferente.

Per questo vi dico: tutto ciò che fate fatelo per Gesù, ricordandovi sempre la regola delle cinque dita”, e toccando l'estremità di ogni dito della mano diceva per ogni dito una parola: "I do it for Jesus" (faccio questo solo per Gesù”).

Peraltro, Padre Antonio Sicari, a proposito del tempo per “meritare” l’eternità, ci ricorda sempre l’insegnamento di San Giovanni della Croce “Raccattare da terra un solo filo di paglia per Amore di Dio giova alla Chiesa più di tutte le grandi opere compiute senza Amore”.

Infine un augurio, a tutti i medici presenti, ma anche a tutti i “curanti” che si sentono di chinarsi sui malati, soprattutto gli inguaribili.

Oscar e la dama in rosa [16] si legge di un fiato … è la storia di un bambino di dieci anni a cui rimangono pochi giorni da vivere e in Ospedale incontra una amica (nonna Rosa, ex lottatrice di catch) che lo va a trovare e gli consiglia di scrivere a Dio … e considerare ciascun giorno che gli resta da vivere (gli restano dodici giorni) come dieci anni: un giorno vale dieci 10 anni .

E Oscar descrive molto bene il suo medico curante, il Dr. Dusseldorf…che la mattina “mi guarda senza dire nulla, come se avessi commesso un errore … ha un’aria talmente infelice …uno sguardo sconsolato che a vederlo mi sento colpevole. Ho capito che sono diventato un cattivo malato, un malato che impedisce di credere che la medicina sia straordinaria … ha l’aria sconsolata di un Babbo Natale che non abbia più regali nella sua gerla”.

L’auspico per tutti noi è quello davvero di cercare di non arrivare mai di fronte ai nostri malati con la gerla dei regali vuota !

  1. Iona Heath. Modi di morire – Bollani Boringhieri Editore, Torino, 2007. Pp 14-15
  2. M. Cancian, P.Lora Aprile.Aspetti etici, relazionali, clinici, organizzativi delle cure palliative domiciliari. Pacini Editore, Pisa, 2004 pp 19-21
  3. Igino, Favole, 220
  4. (Essere e tempo, cap. 42, tr. it., Milano, Chiodi, 1970, pp. 306-7).
  5. P. Lora Aprile in M. Bonetti Silenzi e Parole negli ultimi giorni di vita-Franco Angeli, Milano, 2003 pp 132
  6. Concilio Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 24: AAS 58 (1966) 1045.
  7. Gracia D. History of medical ethics. In: Ten Have H, Gordijn B, eds. Bioethics in European perspective. Dordrecht: Kluwer Academic Publishers 2001:17-50.
  8. https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/213823/dh_117794.pdf pp13
  9. The Human Factor: How transforming healthcare to involve the public can save money and save lives”. NESTA (2010)
  10. Arthur Schopenhauer. Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819
  11. G. Cosmacini. La scomparsa del dottore. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013, pp.35
  12. Corrado Viafora. Bioetica e diritto nel díbatîito sull'eutanasia, Gregoriana ed., Padova 1996. Cap. 15
  13. Jacques et Claire Poujol. Pages extraites de leur livre « L’accompagnement psychologique et spirituel : guide de relation d'aide », Empreinte Temps Présent, 2007. www.librairie-7ici.com/detail.php?article=4958 .
  14. E. Suchuchardt, Warum gerade isch?. Offenbach/Frankfurt, 1981 pp 4
  15. Enzo Bianchi, Luciano Mainardi. Accanto al malato. Edizioni Quiqajon, Comunità di Bose, Magnano, Biella, 2006
  16. Erich Emmanul Smith. Oscar e la dama in rosa. Rizzoli, 2004, pp.11-14