Cosa resta dell’umano?

Cosa resta dell’umano?

Alcuni anni fa la sociologa canadese C. Lafontaine pubblicava un libro dal titolo provocatorio: La société postmortelle, tradotto anche in italiano con lo stesso titolo La società postmortale. In esso si dava conto di alcune tendenze riscontrabili nella cultura attuale, soprattutto medica: si starebbe tentando di prolungare la vita umana fino a cinquemila anni con il miraggio se non acquisire l’immortalità almeno di dominare tecnicamente la morte e con essa la vita. Di fonte a questo obiettivo ci si potrebbe spaventare o anche gloriare.

Lo spavento deriverebbe dall’immaginare una vita che si trascina stancamente fino all’estenuazione; la soddisfazione deriverebbe dal constatare che con la tecnica si possa vincere pur in modo non definitivo lo spettro che si staglia sull’esistenza umana. L’autrice del libro mostra le ricadute che il tentativo citato ha sulla visione della vita umana: in balia della potenza della tecnica, che diventerebbe il vero padrone del mondo attraverso una medicalizzazione parossistica dell’esistenza tesa a superare i limiti inscritti nativamente nella natura umana.

Colpo di coda della pretesa moderna di dominare tutto? Si deve mettere in conto che la tecnica, figlia e nello stesso tempo madre della scienza, permette di migliorare le condizioni di vita di molte persone, di scoprire nuovi mondi sia in estensione sia in profondità, di vincere malattie una volta mortali, di avvicinare le persone spazialmente distanti, di controllare – almeno fino a un certo punto – le forze della natura.

Tuttavia una questione sembra ineludibile: il progresso tecnico rende più umane le persone? Va da sé che per rispondere alla questione si deve precisare cosa si intenda con ‘umano’. Su questo forse mai come oggi si constata un conflitto di interpretazioni. Sull’umano infatti si esercitano le diverse forme del sapere. Non c’è bisogno di entrare in disquisizioni dotte per rendersi conto che il sapere scientifico ha una visione dell’umano diversa da quella del sapere filosofico e teologico. Per fare un esempio: quando si tratta di spiegare perché una persona umana pensa, ama, prega, parla … basta dire che tutto dipende dai suoi processi cerebrali? Negli ultimi vent’anni le neuroscienze hanno compiuto progressi impensabili nei decenni precedenti: ci hanno fatto conoscere quale parte del nostro cervello si metta in atto quando pensiamo una cosa e quale altra parte quando preghiamo o amiamo o odiamo … La conclusione che alcuni orientamenti di queste scienze ricavano è che tutto quanto nelle persone umane si attua ha come una ragione il cervello. Indiscutibile che senza cervello noi umani né pensiamo né parliamo né amiamo né preghiamo.

Ma il cervello è uno ‘strumento’ indispensabile all’anima per le nostre azioni ‘spirituali’ oppure è l’unica origine di tali azioni, che pertanto non sarebbero più spirituali? La filosofia e la teologia rispondono che il cervello è strumento, le neuroscienze – peraltro in continuo progresso e alquanto diversificate tra loro – che è l’origine.

Se però è così, che ne è della libertà e responsabilità umane? Non si cade in forme di determinismo che metterebbero a rischio anche tutte le procedure giuridiche nei confronti dei colpevoli? Quello addotto è soltanto un esempio del conflitto delle interpretazioni dell’umano. Queste pongono un problema più generale che attiene al sapere scientifico. Nel comune modo di pensare, che in verità non è quello degli scienziati più avveduti, il sapere scientifico è semplice scoperta, constatazione e registrazione dei fenomeni, e quindi l’unico in grado di dire la verità delle cose: tutto ciò che non è verificabile non sarebbe vero, ma pura opinione, fantasia. Chi conosca un po’ di storia del pensiero scientifico sa che non c’è scoperta che non sia una interpretazione e ogni interpretazione suppone modelli e nella costruzione dei modelli si assumono presupposti che comportano una visione globale del mondo, delle cose, delle persone umane.

Su questo plesso di questioni si muove il programma dell’Accademia Cattolica di Brescia che prenderà avvio il 2 ottobre prossimo. Attraverso una serie di iniziative che coinvolgono le due Università e la CCDC si vorrebbe stabilire un confronto sull’umano facendo dialogare scienziati, medici, filosofi e teologi. Nessuno può pretendere di avere la conoscenza compiuta dell’umano: solo nella reciproca apertura, che richiede umiltà, si può tendere a conoscere e quindi a salvaguardare la realtà più mirabile dell’universo, cioè le nostre persone.

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