Cerimonia di inaugurazione

Cerimonia di inaugurazione

Avv. Francesca Bazoli
Presidente Accademia Cattolica di Brescia

Cari amici, ho il privilegio di darvi il benvenuto e di ringraziarvi per la vostra presenza a questo incontro con il quale inauguriamo l’attività dell’Accademia Cattolica di Brescia. Non parlerò di programmi specifici dell’Accademia, né delle idee che hanno ispirato la sua costituzione. Al riguardo qualcosa immagino dirà don Giacomo e qualcosa potete leggere sul foglio di presentazione che abbiamo lasciato all’ingresso della sala.

Desidero soltanto esprimere un ringraziamento sentito al nostro Vescovo, sia per l’ospitalità di questa sera, sia per la bellissima sede che ha offerto all’Accademia presso l’Archivio Storico Diocesano.

Ma soprattutto voglio ringraziarlo per l’immediata e sensibile disponibilità con cui ha accettato di parlare del tema, che è centrale per le attività della nostra Fondazione, e cioè del rapporto fra la fede e la cultura. La sua parola acquista per noi un valore simbolico, perché si rivolge a definire l’obiettivo generale di una Fondazione che è di diritto civile, non ecclesiastico, e che ha raccolto su un piano di pariteticità d’impegno un gruppo variegato di fondatori, costituito sia da laici, impegnati in diversi campi dell’agire sociale e professionale, sia da consacrati, con l’intento istituzionale di alimentare un rapporto di libera e feconda collaborazione reciproca, secondo quello che costituisce uno degli insegnamenti più preziosi del Concilio Vaticano II.

Ed insieme a questo ringraziamento, permettetemi di condividere con voi un sentimento di autentica gioia, per aver l’occasione di partecipare, insieme ai giovani che hanno accettato l’invito ad intervenire ai nostri seminari e a tutti quanti saranno interessati alle nostre attività; tutti quanti, nessuno escluso, ci teniamo a dire che l’idea di creare artificiosi schieramenti e divisioni addirittura all’interno del mondo cattolico, è esattamente l’opposto dell’intento che anima il nostro agire.

Dicevo la gioia di partecipare insieme a questi giovani ad un confronto di idee, libero, approfondito, rispettoso delle altrui convinzioni. Un confronto cioè dove ciò che rileva e si persegue non è la difesa delle proprie posizioni, cosa che ci vede fin troppo facile fare istintivamente tutti i giorni, ma la ricerca di quali siano gli strumenti e le parole del dialogo.

La ricerca delle ragioni che rendono possibile la convivenza civile fra uomini di orientamenti, ispirazioni e anche religioni diverse. Siamo convinti che le parole del Vangelo, in particolare l’invito di «Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio», abbiano ancora molto da insegnarci al riguardo e debbano essere sempre nuovamente comprese in relazione agli sviluppi della nostra società. Una società che necessita in modo evidentissimo dei fondamenti morali delle religioni, ma nel contempo deve essere rispettata nell’autonomia dei propri ordinamenti. Passo la parola a don Giacomo, che è Direttore scientifico dell’Accademia.

Mons. Giacomo Canobbio
Direttore scientifico dell’Accademia Cattolica di Brescia

Alle parole di soddisfazione e di gratitudine della Presidente, unisco anche le mie. L’interrogativo che immagino sia passato nella mente di molte persone di fronte a questa iniziativa, è se ce ne fosse effettivamente bisogno a Brescia, una città che vede una serie di istituzioni impegnate sul versante culturale, alcune di lunghissima data. Abbiamo ritenuto di non volerci sovrapporre a nessuna altra delle Istituzioni o delle iniziative che già animano culturalmente la nostra città. Abbiamo, tuttavia, ritenuto che potesse esserci spazio per questa iniziativa che si propone di percorrere degli itinerari di carattere tematico, come quello scelto per i primi tre anni di lavori della Accademia che, come tutti sanno, ha come tema: “Religioni e convivenza civile”. Il comitato scientifico ha pensato di poter focalizzare la sua attenzione e l’attenzione di quanti parteciperanno alle iniziative dell’ Accademia su questo tema, perché ci sembra cruciale nell’attuale congiuntura culturale e sociale. Stiamo vivendo un momento di trapasso di civiltà, l’incontro tra le religioni potrebbe presentarsi come motivo di conflitto.

Osiamo pensare che possa essere, invece, motivo di costruzione di una convivenza civile armonica. L’iniziativa, che è maturata gradualmente all’interno di un gruppo di laici, sempre d’accordo con il Vescovo, è stata resa nota sia alla Congregazione per l’Educazione Cattolica, la quale ha dato il suo placet per lo Statuto ed è nota pure al Pontificio Consiglio per la Cultura, il cui presidente, il futuro Cardinale Gianfranco Ravasi, al sottoscritto disse nel dicembre del 2009 che «la cosa non solo era opportuna, ma sarebbe stata necessaria».

L’obiettivo fondamentale che l’Accademia si propone è quello di aiutare a riflettere criticamente secondo lo spirito cattolico, usando “cattolico” nel senso etimologico del termine, cioè aperto all’universale, su alcuni temi di confine tra l’esperienza cristiana, il pensiero cristiano e la cultura nella quale siamo immersi.

Le direttrici di lavoro sono tre:

la prima: delle conferenze pubbliche nelle quali si illustra a tutti quanti vorranno intervenire qualche contenuto per i prossimi tre anni, appunto il rapporto tra religioni e convivenza civile.

I seminari: abbiamo, con il Comitato Scientifico, individuato venti giovani dottori, o dottorandi, ai quali fare la proposta di partecipare ai seminari guidati da Docenti universitari. Lo scopo è quello di abituare a riflettere criticamente in maniera partecipata – ecco perché seminari –, all’approfondimento del tema che ci interessa.

La terza direttrice del percorso, è quella di pubblicare saggi relativi alle tematiche sia delle conferenze, sia dei seminari. Ai giovani che partecipano ai seminari si chiederà, al termine del percorso, di stendere dei saggi che il Comitato Scientifico valuterà se valga la pena siano pubblicati sulla rivista edita dalla Morcelliana «Humanitas». I lavori saranno seguiti da una tutor che accompagnerà i dottori o dottorandi che partecipano ai seminari in forma particolare, ed è la dottoressa Francesca Nodari.

È un modo, questo, per poter cominciare il lavoro di quest’anno che ha uno scopo anzitutto di osservazione, infatti i tre seminari programmati per quest’anno sono relativi: il primo a osservare alcuni modelli di rapporto tra religioni e convivenza civile in Canada, negli Stati Uniti, in Francia e in Italia.

Il secondo, con uno sguardo alla Convenzione Europea, a vedere quali siano i problemi che si pongono a chi vuole essere fedele alla propria appartenenza religiosa. Il terzo, forse quello più originale, avrà come protagonista una professoressa turca che vive da anni in Germania, che ci aiuterà a capire come in Germania si stia tentando di integrare i turchi. La scelta di questo terzo Seminario è dettata dalla convinzione che nei prossimi anni la Turchia costituirà il ponte tra il mondo europeo e il mondo islamico.

Nel secondo anno ci si soffermerà piuttosto alla considerazione di alcuni modelli teorici, relativi al rapporto tra religioni e convivenza civile. Soprattutto considerando il confronto tra Habermas e alcuni pensatori americani o tedeschi. Fra i tedeschi è compreso Ratzinger.

Il terzo anno presterà, invece, attenzione alla formulazione di un ipotetico modello da proporre alla cultura italiana su come si possa costruire in Italia una convivenza civile, tenendo conto della pluralità delle religioni che ora occupano anche il nostro spazio.

La gratitudine per la presenza di un pubblico così folto questa sera, mi pare sia naturale esprimerla. Voglio solo ricordare, prima di dare la parola al Vescovo, che domani sera alle ore 18 non qui, ma in un edificio contiguo e cioè nel salone dell’Archivio Storico Diocesano, il prof. Silvio Ferrari terrà una conferenza che avvia la ricerca dei prossimi tre anni, sul tema: Religione e convivenza civile nell’Ebraismo, nel Cristianesimo, nell’Islam.

Ci possiamo augurare che quanto stiamo iniziando questa sera sia l’inizio di un percorso che vorrebbe essere critico, perché cattolico. La parola ora al nostro Vescovo.

LECTIO MAGISTRALIS DEL VESCOVO, S. E. LUCIANO MONARI,
FEDE E CULTURA. DALLA SEPARAZIONE AL DIALOGO

Sono contento che le circostanze mi portino ad inaugurare i lavori di questa Accademia, che don Giacomo ha voluto con molto impegno e che io ho accolto molto volentieri, perché credo e spero che sia un aiuto nel cammino, non facile, che sta davanti alla Chiesa e alla società in questi anni. Alla Chiesa Cattolica ed, evidentemente, alla Chiesa bresciana che ci sta particolarmente a cuore. Parto dai due obiettivi del Concilio. Credo che le intenzioni di Papa Giovanni XXIII e di Paolo VI nella conduzione del Concilio Ecumenico Vaticano II, si possano riportare a due temi simili, ma anche diversi per alcuni aspetti.

Il primo problema era quello della riforma della Chiesa, e per riforma della Chiesa, si intende il recupero sempre nuovo del legame vitale con le sue origini. La Chiesa viene da Gesù Cristo e ha continuamente bisogno di ritornare a Gesù Cristo, perché è ritornando a Cristo che la Chiesa registra, come si dice, la sua forma, quindi la rende coerente con il Vangelo ricevendo quella energia spirituale che le permette di crescere, che si chiama Spirito Santo. La forma e l’energia vengono dal Signore e la Chiesa vive continuamente ritornando al Signore: si può dire che la storia della Chiesa è una storia continua di riforme. Il mio insegnante, che è Padre Hallinger, raccontava la storia della Chiesa come una successione di quelle che lui chiamava monastichen Lebensformen, le forme di vita religiosa e, attraverso forme sempre nuove di vita religiosa, la Chiesa ritrova e rinnova il suo rapporto con Gesù Cristo. Il Padre Congar dice giustamente che la Chiesa è sempre stata attiva nella riforma di se stessa. Si pensi alla Sacrosanctum Concilium, cioè al documento del Concilio sulla sacra liturgia, si pensi a quello sulla Parola di Dio, a quello sulla Chiesa e la Comunione come forma della Chiesa, alla sottolineatura della vocazione di tutti i cristiani alla santità: tutti questi documenti, praticamente tutto il tema del Concilio, ci riportano lì, al desiderio di attingere di nuovo e sempre più profondamente in Gesù Cristo la propria forma e la propria energia. V’è un secondo obiettivo che è strettamente connesso al primo, ma non si identifica del tutto ed è quello che Papa Giovanni XXIII chiamava “aggiornamento”, termine che esprimeva l’esigenza che nasce dalla percezione del necessario cambiamento. Vivere significa cambiare: quando un vivente non cambia più, vuol dire che ha smesso di vivere. Questo vale per l’ individuo come per le Istituzioni e pretendere di bloccarne la trasformazione, il cambiamento significa, essenzialmente, ucciderli.

L’aggiornamento è assolutamente necessario per lo sviluppo della vita e di tutto quello che è vitale. Necessario perché il cammino della Chiesa sia anzitutto efficace. Naturalmente occorre che la Chiesa si confronti con i problemi di oggi: i problemi della politica, dell’economia, della tecnologia che non sono quelli di ieri e richiedono delle intelligenze nuove, dei modi nuovi di vedere e di risolvere le situazioni. Tali questioni, inoltre, ci inducono a percepire le possibilità concrete che la situazione attuale offre: non v’è dubbio che il vissuto concreto dell’uomo è cambiato. Si potrebbe anche dire che quello della donna è cambiato ancora di più, negli ultimi anni, negli ultimi decenni. E se la santità significa la trasformazione del vissuto in amore – il vissuto è il materiale, l’amore è la forma di questo materiale – evidentemente il cambiamento del vissuto provoca dei cambiamenti nella forma della santità. Come dire: la santità è sempre l’espressione dell’amore, ma l’amore si coniuga e si rigenera nelle situazioni diverse in cui l’uomo vive, con le molteplici sfide che questi ha da affrontare. Se si vuole che la fede sia una esperienza vitale, bisogna che sia intrecciata con il maggior numero delle esperienze concrete che l’uomo fa perché il rischio grave sarebbe che la vita di fede fosse percepita e vissuta come una specie di vita parallela, rispetto alla vita ordinaria: da un lato, v’è il vissuto quotidiano che procede con le sue leggi, con i suoi orientamenti o desideri, dall’altro e v’è un’ esistenza parallela di fede che procede con la preghiera, con l’Eucarestia, con i Sacramenti ecc.

Questo diventa pericoloso, perché poco alla volta l’esperienza di fede appare superflua, l’uomo può vivere senza alcun riferimento spirituale e la fede, appiccicata come un francobollo, ha un vissuto essenzialmente mondano, secolare, prossimo all’irrilevanza. Per questo ritengo che la categoria dell’aggiornamento sia necessaria proprio per l’efficacia dell’annuncio del Vangelo e per la possibilità che da esso promana di intercettare l’esperienza dell’uomo contemporaneo e di animarla con quello Spirito che viene da Cristo. L’aggiornamento è poi necessario per la fedeltà. Un’affermazione che parrebbe paradossale, perché qualcuno potrebbe pensare alla fedeltà come alla ripetizione dei medesimi schemi nella mutevolezza delle epoche, e invece no, perché, se cambia il contesto e io mantengo lo schema precedente, quello schema è diventato falso: bisogna che la trasformazione sia coerente e vitale, ma è indispensabile perché la fedeltà possa essere custodita. Insomma, l’aggiornamento è indispensabile per poter illuminare l’oggi con la rivelazione dell’amore di Dio che viene dal Vangelo.

Vi deve essere un amore straordinario del Vangelo, di Cristo, un innamoramento di Cristo – questo è fondamentale nella vita della Chiesa – e, nel contempo, si deve nutrire un amore autentico nei confronti del mondo. Rammento un passo bello del discorso tenuto da Paolo VI nell’ultima sessione del Concilio, che dice: “Non possiamo trascurare un’osservazione capitale nell’esame del significato religioso di questo Concilio, esso è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione, la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento, questo atteggiamento determinato dalle distanze, dalle fratture verificatesi negli ultimi secoli, nel secolo scorso e in questo specialmente, fra la Chiesa e la società profana e sempre suggerito dalla missione salvatrice essenziale della Chiesa, è stato fortemente, continuamente operante nel Vangelo; fino al punto da suggerire ad alcuni il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone e atti del Sinodo Ecumenico, a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del Concilio medesimo. Noi non crediamo che questo malanno si debba adesso imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni”.

<p">Da queste righe emerge una costante del Concilio, che riflette un atteggiamento presente nella Gaudium et Spes e in tutti i documenti che il Concilio ha pubblicato. Ora, riforma e aggiornamento è la sfida che la Chiesa continua oggi ad avere davanti, che deve tentare di vivere alla luce del Concilio e che richiede due sforzi.

Primo: un’ermeneutica del Concilio, ossia un’interpretazione corretta di quello che il Concilio ha annunciato ed insegnato. Detto en passant, credo che quella polemica che è stata innescata negli ultimi anni circa l’ermeneutica della continuità o della discontinuità, ci possa servire per andare in profondità, senza peraltro spingersi a radicalizzare né luna né l’altra posizione.

Non si può pensare che il Concilio abbia voluto operare una discontinuità con il passato, ci mancherebbe, i documenti sono stati votati quasi tutti all’unanimità. L’intenzione dei Vescovi non era chiaramente volta alla rottura, d’altra parte è vero che il Concilio ha presentato un atteggiamento nuovo, quello che Paolo VI ha espresso nel testo che abbiamo letto sopra. Se si confronta questo testo con il Sillabo di Pio IX, ci si rende conto del cambiamento che è avvenuto. Qualcuno faceva notare che quando, all’inizio del Novecento, la Chiesa si è trovata davanti ad un atteggiamento ereticale globale, che riguardava, non punti particolari della fede della Chiesa, ma sostanzialmente l’intero senso della Rivelazione, quel movimento la Chiesa lo ha chiamato modernismo. Ciò vuol dire che, nella sua prospettiva, la modernità appariva ambigua, equivoca, tanto da essere considerata la cifra della eresia, della perdita della tradizione e dei valori della fede. Non v’è dubbio che il Concilio ha introdotto un cambiamento di atteggiamento e il problema è proprio quello di riuscire a trovare un equilibrio per intraprendere un cammino di approfondimento, di revisione, di trasformazione, ma, come dicevo, nella fedeltà. Non si tratta evidentemente di abbandonare il passato e di accettare il presente, si tratta di liberarsi dai limiti del passato e di riconoscere ciò che è bene o ciò che è male nella cultura attuale.

Non possiamo essere così ingenui da pensare che la cultura attuale sia perfetta, che il mondo attuale sia il paradiso incarnato; però non possiamo nemmeno rifiutare la cultura attuale, rifugiandoci in una conservazione fondamentalmente sterile del passato. Insomma, la sfida grande è quella di assumere seriamente la storia come dimensione essenziale del fatto umano, anzi, del mondo stesso. Quando Newman, nell’Ottocento, studiava lo sviluppo del dogma, faceva esattamente un cammino in questa direzione, e tutto il movimento teologico che insiste sull’importanza della teologia positiva – ossia della teologia che studia storicamente le fonti: la Sacra Scrittura, i Padri della Chiesa, i teologi – nasce dalla percezione che la storia è un elemento essenziale nell’esperienza dell’uomo, anche nella esperienza della fede.

È chiaro che in questo v’è un pericolo, che si chiama relativismo: far entrare la storia potrebbe far temere a qualcuno che non rimanga più niente di solido e di permanente, che si perda il passato e quindi il legame reale, effettivo con l’evento di Cristo. Il rischio inevitabilmente c’è, ma non lo si risolve negando la storia, piuttosto bisogna cercare di comprenderne correttamente il processo: l’uomo si fa nel tempo, l’uomo non nasce fatto, nasce da fare, nasce da costruire attraverso le esperienze e attraverso i cambiamenti. Naturalmente può rovinarsi nel cambiamento – non tutti i mutamenti sono crescite positive, ci sono anche dei cambiamenti che sono decadenza, che sono declino –, ma è proprio questo che dobbiamo imparare a valutare, riuscire a criticare correttamente le esperienze in modo da distinguere quello che è meglio nel cammino dell’uomo e della Chiesa o quello che è peggio, in concreto, nell’una o nell’altra situazione.

Ora, sono convinto di una cosa che mi interessa particolarmente perché tocca anche il mio Ministero e che provo ad esporre così: abbiamo vissuto e stiamo vivendo il passaggio da un concetto di cultura normativa, a un concetto di cultura empirica. È un processo che è iniziato alla fine del Seicento e che si è sviluppato con il progredire del cammino della scienza, che è diventata una forma della cultura contemporanea sic et simpliciter.

Che cosa questo voglia dire, lo spiego citando l’introduzione a quel libro famoso e bello che è Paideia. La formazione dell’uomo greco di Werner Jaeger, un volume degli anni trenta. La tesi di Jaeger è che i Greci hanno un posto unico nell’educazione dell’umanità, perché hanno conquistato quella che lui chiama la forma eterna dell’uomo. L’uomo vero è quello che i Greci hanno scoperto e hanno cercato di esprimere: l’umanesimo nasce in Grecia e rimane, fondamentalmente, coerente con se stesso. Scrive Jaeger «La storia dei Greci sarebbe dimenticata da gran tempo se i Greci non avessero tratto una forma eterna. Essi la crearono quale espressione di una suprema volontà, con la quale affrontavano il destino. Di questa volontà, nella fase prima del loro sviluppo, mancava loro ancora ogni concetto, ma quanto più chiaroveggenti procedevano nel loro cammino, tanto più netto si imprimeva nella loro coscienza la meta onnipresente cui subordinavano se stessi e la propria vita: la formazione di una umanità superiore, cioè di una umanità consapevole, civile.

L’idea dell’educazione appariva loro rappresentativa del significato di ogni sforzo umano». Nella pagina successiva, Jaeger deplora un uso nuovo della parola cultura, che viene dall’antropologia, e lo esprime così: «La parola cultura è quindi decaduta a concetto antropologico meramente descrittivo, non normativo, com’era l’idea eterna dei Greci, ma puramente descrittivo, come è la descrizione antropologica delle culture oggi. Non rappresenta più, la parola cultura, un altissimo concetto di valore, un ideale consapevole. E in questo significato vago e sbiadito di mera analogia, è allora lecito parlare di una cultura cinese, indiana, babilonese, ebraica o egiziana, sebbene in nessuna di tali lingue si trovi un vocabolo corrispondente e la consapevolezza del relativo concetto. Nessun popolo d’elevata organizzazione manca, è vero, di un apparato educativo, ma la legge e i profeti degli Israeliti, il sistema Confuciano dei Cinesi, il Dharma degli Indù, nell’essenza loro e in tutta la loro struttura spirituale, sono tutt’altra cosa dall’ideale greco della cultura umana». L’ideale greco della cultura umana è quello che nasce dalla distinzione fra noi e i barbari. La cultura è quella che il greco ha costruito, ha compreso, il resto rimane escluso. Una cultura di questo genere, evidentemente, si presenta come un modello, un ideale da raggiungere, appunto: una verità eterna. E, se capisco bene, il Liceo Classico è nato così, è nato da quel canone di formazione che i Gesuiti hanno raccolto negli anni della riforma cattolica. Hanno costruito un progetto globale di educazione della persona che è, fondamentalmente, normativo. Chi conosce, chi vive, chi accoglie quei valori che sono presentati è una persona colta, civilizzata, è matura umanamente. Non intendo affermare che questo sia sbagliato, ma il problema è che oggi il mondo è cambiato, la concezione attuale dell’uomo è quella di una cultura empirica, che si costruisce a partire dall’esperienza e dalla riflessione sull’esperienza, poi dai giudizi, quindi dai risultati delle proprie scelte e, a seguire, dal cambiamento delle proprie convinzioni. Non riusciamo più a ragionare a partire dai principi eterni ricavando delle conseguenze.

Siamo, in qualche modo, costretti a costruire dal basso il cammino dell’uomo attraverso l’esperienza e la riflessione sull’esperienza. Per intenderci bene, questo non vuol dire che i classici non servano a niente, è vero il contrario, perché i classici permettono all’uomo di avere una serie di immagini e di contenuti che lo rendono molto più efficace nell’interpretare l’esperienza e nel rinnovarla. In realtà, ciò dinnanzi a cui siamo chiamati a riflettere è la svolta epocale determinata dal passaggio dalla cultura normativa alla cultura empirica.

In un testo di una conferenza tenuta a Toronto, Karl Rahner, celebre gesuita e teologo tedesco, mostrava la difficoltà che viene da quella che lui chiamava integrismo, intendendolo così: l’idea che l’autorità possa risolvere tutti i problemi, affermando i principi e deducendo dai principi le conclusioni. Affermo il principio eterno e dal principio ricavo le conclusioni. I principi possono essere veri, le conclusioni accurate, ma, paradossalmente, il risultato non soddisfa. Perché? Ma perché le situazioni che l’uomo vive sono concrete e non astratte, e tutti gli schemi astratti sono preziosi per capire il concreto, ma non riescono ad esaurirne la ricchezza. Non sono mai le esperienze concrete degli schemi generali, per capirle bisogna conoscerle, comprendere da dove vengano, quali conseguenze producano, quali potenzialità abbiano in sé, immaginare e adottare progetti di soluzione man mano che le situazioni cambiano. Insomma: abbiamo urgente bisogno di persone competenti sul campo.

Io posso fare dei discorsi ottimi sul significato dell’economia e sui peccati che non bisogna commettere nell’uso del denaro, ma se uno non è competente in tale ambito, tutti questi discorsi rimangono inefficaci, non riescono ad entrare nelle scelte concrete delle persone, passano sopra alla testa. C’è bisogno, quindi, di persone competenti sul campo, non basta l’autorità che enuncia i principi e tira le conseguenze. Persone competenti sul campo che sappiano affrontare con libertà i problemi reali man mano che i problemi sorgono e si sviluppano. Faccio un esempio: uno dei problemi importanti che abbiamo dal punto di vista, non solo morale, ma anche esistenziale, è il pullulare delle convivenze.

I nostri fidanzati, quelli che si preparano al matrimonio in Chiesa, sono in gran parte dei conviventi. Dinnanzi ad una simile situazione, posso risolvere il problema asserendo che v’è il principio per cui la sessualità viene esercitata solo nel matrimonio, lecitamente, perché è l’apertura della sessualità alla procreazione, quindi la necessità dei figli di avere un contesto di sicurezza e così via. Tuttavia questo risolve poco: lo posso dire, lo posso anche gridare, ma i giovani convivono lo stesso e sono costretto ad intraprendere, se voglio diventare in qualche modo convincente, un cammino che è molto più complesso perché richiede delle considerazioni psicologiche, sociologiche, umane, evangeliche ed ecclesiali per arrivare a far capire quali siano i valori in gioco nella convivenza e per mostrare che l’esperienza del matrimonio è umanamente più ricca di quella della convivenza. Procedendo in tal modo il discorso comincia ad attecchire, allora qualche cosa si può inventare, ma bisogna percorrere inevitabilmente un cammino che è più lungo.

Era più facile qualche anno fa per certi aspetti, paradossalmente era più facile per S. Tommaso. Questo è il primo problema: il passaggio da una cultura normativa, a una cultura empirica. Il secondo elemento, che è strettamente connesso con questo, scaturisce dal fatto che i confini delle culture sono diventati porosi e incerti. In realtà, i confini tra le culture non sono mai stati rigidi, i contatti fra le culture ci sono sempre stati. Si pensi, soltanto, all’Ellenismo a Marco Polo: il cammino della storia ha sempre portato a contatto con gli altri. Ma oggi è davvero una rivoluzione l’incontro con le culture diverse, perché la globalizzazione economica e politica non si ferma solo lì, conduce inevitabilmente al confronto delle culture – la cultura cinese, la cultura indiana – al confronto delle religioni, produce anche delle sintesi individuali che celano fenomeni di sincretismo religioso.

Secondo una recente inchiesta condotta sui giovani del nostro Paese, sarebbe maggiore il numero di coloro che credono nella reincarnazione, piuttosto che nella risurrezione dei morti. Evidentemente questo è un elemento che viene da lontano. La reincarnazione non fa parte della nostra storia, non fa parte della nostra tradizione, però v’è chi coniuga elementi della fede cristiana e del Vangelo con elementi spuri e ad essi estranei. Però, di fatto, questa contaminatio delle culture è una realtà, una esperienza in atto, di cui dobbiamo renderci conto e che produce anche dolorosi conflitti: si pensi alla famosissima lectio magistralis di Papa Ratzinger, tenuta all’Università di Ratisbona, dove è bastata la citazione di un testo medioevale per creare uno scandalo internazionale, o si pensi alle critiche e alle polemiche innescate dall’economista tedesco, Thilo Sarrazin, con il suo ultimo libro: La Germania verso la fine, per il giudizio che esprime sugli immigrati musulmani. Ora, il confronto delle culture è inevitabile e va affrontato adeguatamente, non certo nei termini di una sterile difesa ideologica della nostra cultura per cui dobbiamo difenderci dagli assalti dei barbari; stando lontani, peraltro, anche da una accettazione acritica di ogni comportamento culturale: sarebbe ingenuo pensare che tutto quello che c’è nelle culture sia buono, positivo, umano o che le culture si equivalgano. Si tratta di mettere capo ad una riflessione critica.

Ogni cultura nasce dall’intelligenza creativa e dall’amore dell’uomo, ma ogni cultura ne patisce parimenti la stupidità, perché l’uomo è intelligente, ma è anche stupido; è capace di amare, ma è anche egoista e non v’è dubbio che le culture siano segnate dall’egoismo personale di chi non vede al di là dei propri interessi, dall’egoismo di gruppo, che è ancora più tragico per certi aspetti, perché produce dei malanni che sono infinitamente più grandi. L’egoismo di gruppo è l’egoismo del mio partito, l’egoismo della mia parte, l’egoismo della mia tribù, del mio Stato. E allora bisogna pervenire ad una lettura critica che cerchi di capire gli elementi costitutivi delle culture e li valuti alla luce dei valori umani. Inevitabilmente cadiamo nel problema annoso su cui il Papa ritorna spessissimo e su cui ritorna, frequentemente, lo stesso Cardinale Bagnasco. Si può senz’altro dire che in tutte le sue prolusioni emerge il problema dell’antropologia, ovvero del modo di pensare l’uomo. E qui il pasticcio è che ci troviamo di fronte a una selva piuttosto intricata, perché c’è l’uomo immagine di Dio e, secondo me, questa è una delle definizioni più belle che si possono dare del soggetto. Dio ha fatto l’uomo a Sua immagine e somiglianza poi, che cosa voglia dire nei particolari, discuteremo, non lo sappiamo esattamente, ma è una definizione che, dal punto di vista euristico, è straordinariamente feconda, produce tutta una serie di atteggiamenti, di valutazioni e di comportamenti importanti.

V’è l’idea di uomo come animale politico, v’è l’idea dell’uomo come scimmia nuda. Quando ero, non proprio ragazzino, uscì quel libro famoso di Morris sulla scimmia nuda. Secondo una tale lettura, l’uomo fondamentalmente è appartenente al regno animale, e non c’è dubbio che l’uomo appartenga al regno animale dal punto di vista biologico, ma ci si ferma lì: scimmia nuda o passione inutile, secondo la celebre definizione di Sartre. Da quale definizione di uomo partiamo perché si possa avere un criterio corretto nella valutazione delle culture, delle esperienze dell’uomo? Per addentrarci in questa delicata questione, ho deciso di tradurre, in occasione di questa mia prolusione, un testo di un eminente studioso gesuita, Lonergan . Si tratta di una relazione che lui fece nel 1970, quindi quarant’anni fa, dal titolo Il prete gesuita oggi. Lonergan inizia la sua riflessione sul tema della autenticità. Scrive: «Desidero iniziare – dice – da ciò che è semplicemente umano e, in particolare, da una comprensione contemporanea di ciò che significa esistere come uomo. C’è una concezione antica dell’esistere dell’uomo, una concezione logica e quindi astratta, statica, che definisce i requisiti minimi. Essa ritiene che l’essere umano sia qualcosa di indipendente da tutto ciò che è accidentale e, di conseguenza, dichiara un soggetto che sia sveglio o addormentato, geniale o stupido, santo o peccatore, giovane o vecchio, sobrio o ubriaco, sano o malato, equilibrato o pazzo. In contrapposizione all’approccio statico, minimale, logico c’è la visione contemporanea, concreta, dinamica, che privilegia l’attenzione al compimento massimo dell’uomo, che cerca di evidenziare il raggio della potenzialità umana e vuole distinguere una realizzazione autentica di quella potenzialità dalle realizzazioni non autentiche. Secondo questa modalità di approccio, l’espressione ‘essere umano’ è ambivalente: si può essere umani in modo autentico, genuino; e si può essere umani in modo non autentico. Non solo: al di là dell’ambivalenza, c’è anche la dialettica: l’autenticità non è mai per l’uomo un possesso puro, sereno, sicuro; è sempre precario, è sempre un ritrarsi dalla non autenticità, sempre in pericolo di ricadere nella non autenticità».

Questo è interessante: io sono uomo, ma sono sempre in pericolo di essere non umano, di non essere all’altezza della mia umanità, è una lotta continua: vivere umanamente vuol dire, ogni volta, tirarsi fuori dalla non autenticità e camminare verso una autenticità più piena. «Da questo punto di vista, allora, la domanda fondamentale è: Che cosa costituisce una realizzazione autentica o genuina della potenzialità umana? - che cosa vuol dire essere umani?. In sintesi, la mia risposta è che la realizzazione autentica dell’uomo è una realizzazione di autotrascendenza». L’uomo, diceva Paolo VI, è più grande di se stesso, Lonergan dice lo stesso con altre parole: l’uomo è autentico quando trascende se stesso. Lì c’è la sua umanità. E questo Lonergan lo mostra con una lunga riflessione: «Quando dormiamo senza sognare, siamo pur sempre vivi. Operiamo in accordo con le leggi della fisica, della chimica e della biologia. Si può dire che siamo noi stessi, ma non che andiamo oltre noi stessi e, tanto meno, che ci innalziamo sopra noi stessi. Ma quando cominciamo a sognare, emerge la coscienza. Per quanto privo di iniziativa, chi sogna è un soggetto che tende verso qualcosa. L’oggetto verso cui tende è generalmente oscuro, frammentario, simbolico. Nei così detti sogni della notte l’origine è lo stato somatico del soggetto, lo stato della sua digestione, ad esempio. Ma nei sogni del mattino chi sogna anticipa lo stato di veglia; raccoglie il suo mondo; comincia ad assumere una prospettiva entro al mondo. Nel sogno del mattino, quindi, chi sogna è andato oltre se stesso; è occupato con qualcosa che è distinto da lui; sta anticipando la sua auto-trascendenza. Quando poi egli si sveglia, emerge un auto-trascendenza immensamente più ricca. C’è una innumerevole varietà delle cose da vedere, dei suoni da udire, degli odori da annusare, dei gusti da assaporare, delle forme e delle superfici da toccare. Sentiamo piacere e dolore, desiderio e paura, gioia e tristezza e in questi sentimenti sembra risieda la grandezza e l’impulso delle nostre vite. Ci muoviamo attorno in diverse maniere, ci mettiamo ora in un posto ora in un altro, assumiamo una posizione o un’altra e coi movimenti fugaci dei muscoli facciali comunichiamo agli altri la nostra tranquillità oppure l’insorgere improvviso dei nostri sentimenti. Ancora: sensazioni, sentimenti, movimenti sono confinati nell’angusta striscia dello spazio-tempo occupato dall’esperienza immediata. Ma oltre questa, esiste un mondo immensamente più grande. E nessuno si accontenta dell’esperienza immediata. L’immaginazione vuole riempire e completare il quadro. Il linguaggio rende possibili le domande e l’intelligenza rende le domande affascinanti. E allora noi ci chiediamo ‘perché’, e ‘che cosa’ e ‘per che cosa’, e ‘come’. Le nostre risposte costruiscono, mettono in serie, estrapolano, generalizzano. Memoria e tradizione e credenza mettono a nostra disposizione i racconti dei viaggiatori, le storie delle tribù o delle nazioni, le imprese degli eroi, i tesori della letteratura, le scoperte della scienza, le riflessioni dei filosofi e le meditazioni dei santi. Ciascuno di noi ha il suo piccolo mondo dell’immediatezza, ma tutti questi mondi – quelli dell’immediatezza – sono solo strisce piccolissime dentro un mondo più grande, un mondo costruito dall’immaginazione e dall’intelligenza, mediato dalle parole e dal significato e basato ampiamente sul credere».

Il credere è fondamentale, perché noi immediatamente conosciamo pochissime cose, tutte le altre fanno parte della credenza, ovvero sono nozioni che noi riceviamo dagli altri, dalla tradizione, dalla storia o dai libri; ma nessuno può verificare esattamente la fondatezza di tutte le cose che pensa, ci mancherebbe, sarebbe paralizzato. «Se il mondo più ampio è uno e lo stesso per tutti – continua Lonergan – vi sono però tante e diverse costruzioni di esso, quanti sono gli stadi dello sviluppo umano e le differenze delle culture umane. Ma tale diversità serve solo per portare alla luce una dimensione ulteriore dell’auto-trascendenza. Oltre alle domande per l’intelligenza – come quelle che ho ricordato prima – ci sono domande per la riflessione che chiedono: “è così o non è così? È certo o è solo probabile?”. Diversamente dalle domande per l’intelligenza, a queste domande si può rispondere con un semplice ‘sì’ o ‘no’. Come possiamo giungere a dare queste risposte, è un problema che va oltre il mio intento presente; ma che cosa significhino tali risposte, ha un rilievo grande. Perché quando diciamo che questo o quello è realmente e veramente così, non intendiamo dire che questo è ciò che appare. O ciò che noi immaginiamo, o ciò che vorremmo fosse, o ciò che riteniamo sia, o cosa sembra essere, o che cosa saremmo inclini a dire. Senza dubbio spesso dobbiamo accontentarci di tali affermazioni minori. Ma il punto che vorrei sottolineare è che l’affermazione maggiore non è riducibile a quella minore. Quando affermiamo seriamente che qualcosa è realmente e veramente così, stiamo esprimendo la pretesa di essere andati oltre noi stessi in modo assoluto, in qualche modo abbiamo afferrato qualcosa che è indipendente da noi stessi, in qualche modo abbiamo raggiunto ciò che sta oltre, abbiamo trasceso noi stessi. Ho cercato di chiarire la nozione di auto-trascendenza contrapponendo: primo, il sonno senza sogni e l’inizio della coscienza nel sogno; secondo, il sogno e il soggetto sveglio; terzo, il mondo dell’esperienza immediata e il mondo reale immensamente più ampio nel quale viviamo le nostre esistenze – l’esperienza diremmo culturale –; quarto il mondo più ampio in quanto costruito dall’intelligenza […] - e quello affermato dal giudizio. Rimane una dimensione ulteriore dell’auto-trascendenza. I nostri esempi, finora, hanno riguardato principalmente la conoscenza. Rimane l’azione. Oltre le domande che muovono l’intelligenza: che cosa? Perché? Come? Per che cosa? – ci sono le domande che richiedono la riflessione – ‘è così?’ –, ma al di là delle une e delle altre ci sono domande che conducono verso la deliberazione. Al di là dei piaceri che godiamo o dei dolori che temiamo, ci sono i valori ai quali possiamo rispondere con tutto il nostro essere. Al livello più alto della coscienza umana il soggetto delibera, valuta, decide, controlla, agisce. È insieme pratico e esistenziale: pratico perché interessato a corsi concreti di azione; esistenziale perché il controllo include l’autocontrollo e la possibilità di autocontrollo coinvolge la responsabilità per gli effetti della sua azione sugli altri e, più radicalmente, su lui stesso. Il livello supremo della consapevolezza umana è la coscienza. Tuttavia, l’autocontrollo dell’uomo può procedere da fondamenti del tutto diversi. Può tendere ad essere puro egoismo. Allora il processo di deliberazione, valutazione, decisione si limita a determinare che cosa è più vantaggioso per il soggetto, che cosa serve meglio i suoi interessi, che cosa, tutto sommato, offre la quota massima di piacere e la quota minima di dolore. Al polo opposto l’uomo può tendere a considerare unicamente i valori: i valori vitali della salute e della forza; i valori sociali custoditi nella famiglia e nella consuetudine, nella società e nella educazione, nello stato e nella legge, nella economia e nella tecnologia, nella Chiesa o nella setta; i valori culturali della religione e dell’arte, del linguaggio e della letteratura, scienza, filosofia, storia, teologia; il valore personale, raggiunto da chi si consacra a realizzare i valori in se stessi e a promuovere la loro realizzazione in altri. Nella misura in cui la vita di qualcuno, i suoi obiettivi, le sue conquiste sono una risposta ai valori, in quella misura si realizza l’auto-trascendenza nel campo dell’azione. L’uomo è andato oltre il puro egoismo; è diventato un principio di benevolenza e di beneficenza; è diventato capace di genuina collaborazione e di amore autentico. Nella misura in cui l’auto-trascendenza nel campo dell’azione caratterizza i membri di una società, in quella misura il loro mondo non solo è costruito dall’immaginazione e dall’intelligenza, mediato dalle parole e dal significato, basato in gran parte sul credere; è anche un mondo motivato e regolato non dalla ricerca di sé ma dei valori, non da ciò che è solo apparentemente buono ma da ciò che è veramente buono». L’idea fondamentale che emerge da queste considerazioni mi pare sia la seguente: la trascendenza di sé è il tipico dell’uomo e, quanto più questa trascendenza si realizza, tanto più l’uomo è uomo. Questi la realizza nella conoscenza, nella decisione, nel comportamento, nell’amore. Certamente il punto massimo di trascendenza è l’amore di Dio, perché l’amore di Dio è quello che occupa e spinge l’uomo ad uscire da se stesso, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Mentre il resto si può amare sempre e solo con misura – v’è un ordine e una misura nell’amore, in ogni sua forma –, quando si arriva all’amore di Dio, lì non c’è misura, limite, riserva, lì v’è per l’uomo la possibilità e il dovere di amare con tutto se stesso, è il punto massimo della trascendenza. Il cammino dell’uomo è questo, l’uomo autentico è colui che si auto-trascende verso quell’acme. Nel quotidiano, nelle attività che si svolgono, nelle decisioni che si prendono, se si accetta la verità così com’è, si è, davvero, in grado di trascendere se stessi; se, al contrario, si giunge ad alterare la verità sulla base dei propri interessi, si rischia di sconfessare la propria identità umana, perché i tornaconti personali hanno, in qualche modo, deformato la valutazione e il giudizio. Se l’uomo tende a ciò che è veramente bene, trascende se stesso, ma se l’uomo identifica il bene con il suo interesse privato, rovina se stesso, va verso quello che non è autenticamente bene e non è degno dell’uomo. Tutto questo costa una fatica immane, perché essere autentici richiede tenacia e costanza: è una attenzione a se stessi, attenzione al mondo, alle cose, ai propri giudizi, alle proprie valutazioni, ai propri comportamenti, agli effetti dei comportamenti, ai progetti e alle relazioni con gli altri. Come dire: nessuno di noi è in grado di essere stabilmente autentico, ma questo è il proprio dell’uomo: la lotta senza posa per andare in questa direzione. Credo che in questa tensione perenne risieda la sfida cui nessuno può sottrarsi né tantomeno negare, perché nel momento in cui uno la nega, alla fine nega se stesso e ciò che potrebbe aiutarci a stabilire un dialogo tra le culture è una percezione di come la dimensione religiosa, il rapporto con Dio e il vissuto quotidiano si intrecciano tra loro inevitabilmente. La mia ultima considerazione mira ad esplicare un dato di fatto: viviamo in una cultura che rischia di trascurare il riferimento a Dio. Parto ancora dalla concezione moderna di scienza: verso, come dicevo, la fine del Seicento, nasce una scienza moderna, una scienza contemporanea contrapposta alla scienza aristotelica. Anche Aristotele è uno scienziato, ma il suo modo di immaginare la scienza è molto diverso. Aristotele insiste sulla necessità: quello che si conosce scientificamente è ciò che è necessario. Lo scienziato contemporaneo non cerca affatto la necessità, gli basta la possibilità verificabile e, se Aristotele insisteva sulle cause, lo scienziato, oggi, insiste sulle correlazioni. E se lo scienziato Aristotele cercava la certezza, lo scienziato contemporaneo cerca la probabilità. Siamo, quindi, di fronte ad una prospettiva radicalmente diversa del concetto di scienza, che ha delle ripercussioni notevoli su tutte le forme di conoscenza dell’uomo contemporaneo. Perché la conoscenza scientifica ha un prestigio che non si può negare? In primis perché è efficace, e tutta la tecnologia e il cambiamento del mondo di oggi è legato alla conoscenza scientifica, quindi la conoscenza scientifica ha fatto effetto, ha prodotto un mondo nuovo, diverso, migliore per l’uomo. Secondo, la conoscenza scientifica ha il vantaggio di essere universale. Mentre i filosofi litigano facilmente tra di loro e non si capiscono e i teologi spesso fanno lo stesso, gli scienziati, litigano anche loro, però, a lungo andare, quello che è scientificamente fondato viene riconosciuto. È vero quanto sostenne Max Planck, allorché gli venne chiesto quanto tempo secondo lui ci sarebbe voluto perché la teoria dei quanti entrasse dentro alla conoscenza scientifica tranquillamente ammessa. Egli rispose: «Tanti quanti ce ne vogliono perché muoiano quelli che sono adesso gli insegnanti dell’Università».

Per dire che, il cambiamento, anche dal punto di vista scientifico, è legato alle persone, non c’è santo che tenga, però la prospettiva scientifica, avrà bisogno del suo tempo, ma arriva ad imporsi, proprio per la sua metodologia. Ora, non c’è evidentemente problema sulle affermazioni della scienza e la fede in Dio. Questa qui io credo che sia assolutamente non pensabile. Tutti i discorsi che ogni tanto vengono fuori sull’evoluzionismo non toccano il discorso della fede, non riescono a negare creazione o cose di questo genere, il problema è più sottile. Il problema è che la metodologia scientifica, per natura sua, esclude la ricerca su Dio. Per natura sua, si riferisce semplicemente al mondo e all’uomo e poiché Dio non è né natura, né mondo, né uomo, quella metodologia non riesce a raggiungere Dio, ad aprirsi a Dio.

Tuttavia, poiché tale metodologia è efficace ed attraente, tutto ciò che è al di fuori di un tale orizzonte, appare non verificabile, non fondato, non scientifico oppure ci si può credere come si crede ai miti, alle immagini o ai simboli. Questo discorso ce lo portiamo dentro, per cui oggi ci troviamo davanti a un ateismo che, non solo è un ateismo che fa propaganda, che cerca di diffondersi, ma è un ateismo che si giustifica eticamente con la sua scientificità non perché la scienza neghi l’esistenza di Dio, ma per quella asserzione secondo la quale solo ciò che è scientificamente provabile è credibile e, poiché Dio non è scientificamente affermabile, sta al di fuori.

Questa percezione della unicità del pensiero scientifico, della ricerca scientifica, è un problema notevolissimo dal punto di vista della cultura attuale e credo che con questo ci dobbiamo confrontare. Il discorso che Lonergan faceva prima, bisognerebbe completarlo con tutta la sua riflessione sulla conoscenza umana, sui diversi modelli e modi di conoscenza umana, ma in questa direzione bisogna in qualche modo andare. Riepilogando: in questa mia riflessione ho cercato di indicare i due obiettivi del Concilio: la riforma e l’aggiornamento.

Ho cercato di vedere come l’aggiornamento sia necessario per la presenza della dimensione storica in tutto il fatto umano e nell’esperienza dell’uomo e come richieda, per un verso, un’ ermeneutica del Concilio, che tenga presente la crescita, la trasformazione delle realtà ecclesiali e anche della espressione della fede, la crescita del dogma, per l’altro, un’ ermeneutica della cultura del mondo contemporaneo.

Per quanto concerne l’ermeneutica del mondo contemporaneo ho esplicato tre aspetti:

1) il fatto che stiamo passando da una cultura normativa a una cultura empirica;

2) l’importanza del confronto fra le culture e, quindi, di un’antropologia corretta per operare questo confronto;

3) il problema grande di una cultura che sembra ridurre la conoscenza corretta, a quello che è raggiungibile con una metodologia scientifica.

Questi elementi fanno parte della nostra cultura, non sono da accettare acriticamente, non c’è da ingoiare niente della cultura contemporanea, c’è da verificare tutto. Occorre valutare tutte le dimensioni della cultura contemporanea alla luce di quella comprensione lonerganiana di uomo, che è chiamato a trascendere se stesso. Questo è uno dei compiti che toccherà all’Accademia e che io auguro di poterlo fare bene.

Conclusioni:
Mons. Giacomo Canobbio

Ringraziamo il Vescovo per questo discorso che ci ha fatto da apripista in una riflessione che gradualmente intenderà affrontare questi problemi, pur da versanti diversi. Mi pare che l’aperitivo sia sostanzioso ed è ben augurante per i lavori dell’Accademia. Le idee non potrebbero diventare realtà, se non ci fosse qualcuno che rende possibile questo. L’idea di dare vita ad una Accademia Cattolica sul modello dell’Accademia Cattolica di Monaco di Baviera, che è sostenuta dai Vescovi della Baviera, non avrebbe preso corpo a Brescia se un discreto gruppo di persone non avesse aperto il portafogli. A queste persone va la gratitudine del Comitato Scientifico dell’Accademia, penso anche del Vescovo e penso, ci auguriamo, anche di tutti coloro che parteciperanno ai lavori dell’Accademia.

AUTENTICITÀ «Desidero iniziare da ciò che è semplicemente umano e, in particolare, da una comprensione contemporanea di ciò che significa esistere come umano. C’è una concezione antica dell’esistere dell’uomo, una concezione sommamente logica e quindi astratta, statica, che definisce i requisiti minimi. Essa ritiene che l’essere umano sia qualcosa di indipendente da ciò che è accidentale e di conseguenza dichiara un soggetto che sia sveglio o addormentato, geniale o stupido, santo o peccatore, giovane o vecchio, sobrio o ubriaco, sano o malato, equilibrato o pazzo. In contrapposizione all’approccio statico, minimale, logico c’è la visione contemporanea, concreta, dinamica, che privilegia l’attenzione al compimento massimo dell’uomo, che cerca di evidenziare il raggio della potenzialità umana e vuole distinguere una realizzazione autentica di quella potenzialità dalle realizzazioni non autentiche. Secondo questa modalità di approccio, l’espressione ‘essere umano’ è ambivalente: si può essere umani in modo autentico, genuino; e si può essere umani in modo non autentico. Non solo: al di là dell’ambivalenza, c’è anche la dialettica: l’autenticità non è mai per l’uomo un possesso puro, sereno, sicuro; è sempre precario, è sempre un ritrarsi dalla non autenticità, sempre in pericolo di ricadere nella non autenticità. Da questo punto di vista, allora, la domanda fondamentale è: Che cosa costituisce una realizzazione autentica o genuina della potenzialità umana? In sintesi, la mia risposta è che la realizzazione autentica dell’uomo è una realizzazione di auto-trascendenza. Illustrerò cinque diversi casi e concluderò che gli ultimi quattro dei cinque costituiscono un’unità ordinata. Quando dormiamo senza sognare, siamo pur sempre vivi. Operiamo in accordo con le leggi della fisica, della chimica e della biologia. Si può dire che siamo noi stessi, ma non che andiamo oltre noi stessi e, tanto meno, che ci innalziamo sopra noi stessi. Ma quando cominciamo a sognare, emerge la coscienza. Per quanto inerme, per quanto privo di iniziativa, chi sogna è un soggetto che tende verso qualcosa. L’oggetto verso cui tende è generalmente oscuro, frammentario, simbolico. Nei così detti sogni della notte l’origine è lo stato somatico del soggetto, lo stato della sua digestione, ad esempio. Ma nei sogni del mattino chi sogna anticipa lo stato di veglia; raccoglie il suo mondo; comincia ad assumere una prospettiva entro il mondo. Nel sogno del mattino, quindi, chi sogna è andato oltre se stesso; è occupato con qualcosa che è distinto da lui; sta anticipando la sua auto-trascendenza. Quando poi egli si sveglia, emerge un’auto-trascendenza immensamente più ricca. C’è l’innumerevole varietà delle cose da vedere, dei suoni da udire, degli odori da annusare, dei gusti da assaporare, delle forme e delle superfici da toccare. Sentiamo piacere e dolore, desiderio e paura, gioia e tristezza e in questi sentimenti sembra risieda la grandezza e l’impulso delle nostre vite. Ci muoviamo attorno in diverse maniere, ci mettiamo ora in un posto ora in un altro, assumiamo una posizione o un’altra e coi movimenti fugaci dei muscoli facciali comunichiamo agli altri la nostra tranquillità oppure l’insorgenza improvvisa dei nostri sentimenti. Ancora: sensazioni, sentimenti, movimenti sono confinati nell’angusta striscia dello spazio-tempo occupata dall’esperienza immediata. Ma oltre questa, esiste un mondo immensamente più grande. E nessuno si accontenta dell’esperienza immediata. L’immaginazione vuole riempire e completare il quadro. Il linguaggio rende possibili le domande e l’intelligenza le rende affascinanti. E allora noi chiediamo ‘perché’ e ‘che cosa’ e ‘per che cosa’ e ‘come’. Le nostre risposte costruiscono, mettono in serie, estrapolano, generalizzano. Memoria e tradizione e credenza mettono a nostra disposizione i racconti dei viaggiatori, le storie delle tribù o delle nazioni, le imprese degli eroi, i tesori della letteratura, le scoperte della scienza, le riflessioni dei filosofi e le meditazioni dei santi. Ciascuno di noi ha il suo piccolo mondo dell’immediatezza, ma tutti questi mondi sono solo strisce piccolissime entro un mondo più grande, un mondo costruito dall’immaginazione e dall’intelligenza, mediato dalle parole e dal significato e basato ampiamente sul credere. Se il mondo più ampio è uno e lo stesso, vi sono però tante e diverse costruzioni di esso quanti sono gli stadi dello sviluppo umano e le differenze delle culture umane. Ma tale diversità serve solo per portare alla luce una dimensione ulteriore dell’auto-trascendenza. Oltre le domande per l’intelligenza – come sono ad esempio ‘che cosa’ e ‘perché’ e ‘come’ e ‘per che cosa’ – ci sono domande per la riflessione che chiedono: è così o non è così? È certo o è solo probabile? Diversamente dalle domande per l’intelligenza, a queste domande si può rispondere con un semplice ‘si’ o ‘no’. Come noi possiamo giungere a dare queste risposte, è problema che va oltre il mio intento presente; ma che cosa significhino tali risposte, ha grande rilievo. Perché quando diciamo che questo o quello è realmente e veramente così, non intendiamo dire che questo è ciò che appare. O ciò che noi immaginiamo, o ciò che vorremmo fosse, o ciò che riteniamo, o cosa sembra essere, o cosa saremmo inclini a dire. Senza dubbio, spesso dobbiamo accontentarci di tali affermazioni minori. Ma il punto che vorrei sottolineare è che l’affermazione maggiore non è riducibile a quella minore: quando affermiamo seriamente che qualcosa è realmente e veramente così, stiamo esprimendo la pretesa di essere andati oltre noi stessi in modo assoluto, in qualche modo abbiamo afferrato qualcosa che è indipendente da noi stessi, in qualche modo abbiamo raggiunto ciò che sta oltre, abbiamo trasceso noi stessi. Ho cercato di chiarire la nozione di auto-trascendenza contrapponendo: primo, il sonno senza sogni e gli inizi della coscienza nel sogno; secondo, il sogno e soggetto sveglio; terzo, il mondo dell’esperienza immediata e il mondo reale immensamente più ampio nel quale viviamo le nostre esistenze; quarto il mondo più ampio in quanto costruito dall’intelligenza e lo stesso mondo più ampio in quanto sappiamo che è stato formulato come realmente è. Rimane una dimensione ulteriore dell’auto-trascendenza. I nostri esempi, finora, hanno riguardato principalmente la conoscenza. Rimane l’azione. Oltre le domande che muovono l’intelligenza – che cosa? perché? come? per che cosa? – ci sono le domande che richiedono la riflessione – ‘è così?’ –, ma al di là delle une e delle altre ci sono domande che conducono verso la deliberazione. Al di là dei piaceri che godiamo o dei dolori che temiamo, ci sono i valori ai quali possiamo rispondere con tutto il nostro essere. Al livello più alto della coscienza umana il soggetto delibera, valuta, decide, controlla, agisce. È insieme pratico ed esistenziale: pratico perché è interessato a corsi concreti di azione; esistenziale perché il controllo include l’autocontrollo e la possibilità di autocontrollo coinvolge la responsabilità per gli effetti della sua azione sugli altri e, più radicalmente, su lui stesso. Il livello supremo della consapevolezza umana è la coscienza. Tuttavia l’autocontrollo dell’uomo può procedere da fondamenti del tutto diversi. Può tendere ad essere puro egoismo. Allora il processo di deliberazione, valutazione, decisione si limita a determinare che cosa è più vantaggioso per il soggetto, che cosa serve meglio i suoi interessi, che cosa, tutto sommato, offre la quota massima di piacere e la quota minima di dolore. Al polo opposto l’uomo può tendere a considerare unicamente i valori: i valori vitali della salute e della forza; i valori sociali custoditi nella famiglia e nella consuetudine, nella società e nell’educazione, nello stato e nella legge, nell’economia e nella tecnologia, nella Chiesa o nella setta; i valori culturali della religione e dell’arte, del linguaggio e della letteratura, scienza, filosofia, storia, teologia; il valore personale, raggiunto di chi si consacra a realizzare i valori in se stessi e a promuovere la loro realizzazione in altri. Nella misura in cui la vita di qualcuno, i suoi obiettivi, le sue conquiste sono una risposta ai valori, in quella misura si realizza l’auto-trascendenza nel campo dell’azione. L’uomo è andato oltre il puro egoismo; è diventato un principio di benevolenza e beneficenza; è diventato capace di genuina collaborazione e di amore autentico. Nella misura in cui l’auto-trascendenza nel campo dell’azione caratterizza i membri di una società, in quella misura il loro mondo non solo è costruito dall’immaginazione e dall’intelligenza, mediato dalle parole e dal significato, basato in gran parte sul credere; è anche un mondo motivato e regolato non dalla ricerca di sé ma dai valori, non da ciò che è solo apparentemente buono ma da ciò che è veramente buono. Ora se confrontiamo le quattro ultime modalità di trascendenza che abbiamo richiamato, troviamo che esse formano un’unità intrecciata. L’esperienza è presupposta e completata dalla ricerca e dalla comprensione. Esperienza e comprensione sono presupposte e completate dalla riflessione e dal giudizio. Esperienza, comprensione e giudizio sono presupposte e completate dalla deliberazione e dalla decisione. Le quatto modalità sono interdipendenti e ciascun livello successivo assume in sé i li velli che lo precedono nel senso che li supera, introduce qualcosa di interamente nuovo, rende quel nuovo elemento una nuova base di operazione; ma lungi dal fare ressa o dall’interferire con i livelli che lo precedono, li conserva, li perfeziona ed estende la loro rilevanza e il loro significato. La ricerca acuisce le nostre capacità di osservazione, la comprensione estende enormemente il campo dei dati che siamo in grado di dominare, la riflessione e il giudizio costringono la ricerca a fare attenzione a dati ulteriori e costringe la comprensione a rivedere i suoi risultati previi, la deliberazione sposta l’attenzione da ciò che è a ciò che può essere, a ciò che sarebbe probabile e, soprattutto, a ciò che realmente vale la pena. Per concludere, l’autenticità umana è questione di seguire la legge innata dello spirito umano. Poiché possiamo fare esperienza, dobbiamo essere attenti. Poiché possiamo capire, dobbiamo cercare. Poiché possiamo raggiungere la verità, dobbiamo riflettere ed esaminare. Poiché possiamo realizzare valori in noi stessi e promuoverli negli altri, dobbiamo deliberare. Nella misura in cui seguiamo questi precetti, nella misura in cui adempiamo queste condizioni dell’essere persone umane, possiamo anche raggiungere l’auto-trascendenza sia nel campo della conoscenza che nel campo dell’azione. Vi stupirete forse che io abbia speso così tanto tempo su un argomento così remoto come l’autenticità. Ho tre ragioni per farlo. Primo, volevo uscire dal contesto astratto e statico dettato dalla chiarezza, dalla coerenza e dal rigore logico per entrare nel contesto concreto, aperto e crescente dettato dall’attenzione, ricerca, riflessione e deliberazione. Secondo, volevo uscire dal contesto di una psicologia delle facoltà con le sue alternative conseguenze di volontarismo, intellettualismo, sentimentalismo e sensismo nessuna delle quali ha un significato serio, vitale ed entrare nell’analisi dell’intenzionalità che distingue e pone in rapporto la molteplicità delle operazioni umane consce e rivela che insieme esse dirigono l’uomo all’auto-trascendenza. Terzo, volevo avere una base, un punto di partenza, un trampolino nelle persone così come sono e come possono esse stesse scoprire di essere; perché, senza una tale base, parlare dello Spirito, della Parola, dell’apostolato, del sacerdozio dei gesuiti sarebbe un discorso campato per aria; suonerebbe astratto, irrilevante, senza sostanza».